Oggi leggerete, oltre a questo mio, sicuramente tanti altri articoli sulla violenza contro le donne. Ascolterete e vedrete reportage, inchieste, interventi di ministri, sindaci, assessori. Magari parteciperete a dibattiti, e sarete in piazza con noi a Roma il 27 novembre per la manifestazione Non Una Di Meno.

Dichiarazioni di indignazione, di impegno, annunci di iniziative: tutto un popolo che dice a gran voce che la violenza maschile contro le donne deve finire, e che d’ora in poi tutto questo cambierà. Le stesse parole che sentiamo a ogni femminicidio – 109 dall’inizio dell’anno – quando la cruda realtà ci confronta con il fatto che le donne continuano a subire violenza per mano del loro partner, dell’ex partner o di un familiare nell’ 82,3 per cento dei casi ( dati D. i. Re 2020). Sono quasi sempre mariti, fidanzati o ex gli uomini che le uccidono. Le stesse parole che ci sentiamo risuonare nelle orecchie quando ci rendiamo conto che del reddito di libertà tanto decantato potranno usufruire solo 625 donne: sempre che riescano a presentare la domanda attraverso i servizi sociali entro il 31 dicembre. Perché i fondi a disposizione sono solo 3 milioni di euro. Oppure quando calcoliamo che i 30 milioni previsti dal Piano nazionale antiviolenza per centri antiviolenza e case rifugio, e resi finalmente misura strutturale nel bilancio dello Stato, si traducono in appena 60 euro investiti per ognuna delle circa 50 mila donne che trovano supporto in uno dei 302 centri antiviolenza accreditati dalle Regioni, secondo le stime dell’Istat ferme al 2018. Questo, a fronte di percorsi che, nei centri antiviolenza della rete D. i. Re, comportano in media 82 ore di colloqui con le operatrici, a cui si aggiunge il supporto legale, quello psicologico e, nei casi a maggior rischio, la protezione in casa rifugio. Di fronte alla tragedia di Sassuolo, in cui un uomo ha sterminato la moglie, i figli e la suocera, o all’annuncio della morte del piccolo Matias, sgozzato dal padre che non avrebbe dovuto avvicinarsi a più di 500 metri alla casa dove viveva con la madre per le violenze a cui sottoponeva la donna, restiamo mute. E sentiamo rimbombare nella testa le tante parole che il 25 novembre sono e saranno pronunciate. Ma la realtà rimane la stessa. Perché si continua a considerare la violenza maschile contro le donne come un evento isolato, un fatto privato, e non come fenomeno strutturale radicato nella cultura patriarcale che determina la disparità di potere tra uomini e donne, un problema che deve essere invece pubblico. Poi ci siamo noi. Le oltre 3.000 operatrici, attiviste, avvocate, psicologhe, educatrici, attiviste dei centri antiviolenza della rete D. i. Re. E le oltre 20.000 donne che accogliamo ogni anno e che supportiamo in percorsi di fuoriuscita dalla violenza e in procedimenti legali – presso i tribunali penali, civili e per i minorenni – che spesso, anziché liberarle dalla violenza in tempi accettabili per consentire loro di ricostruire la propria vita, si trasformano nel calvario della vittimizzazione secondaria.

Le leggi ci sono. Ma continuano a essere interpretate e applicate senza tener conto del dettato della Convenzione di Istanbul, ratificata dall’Italia nel 2013 e in vigore dal 2014. Nelle decisioni adottate dai tribunali civili e per i minorenni, la Convenzione di Istanbul non è mai citata come riferimento normativo, come ha rilevato l’indagine Il ( non) riconoscimento della violenza domestica nei tribunali civili e per i i minorenni, condotta tra le avvocate dei centri antiviolenza della rete D. i. Re, e non viene quasi mai fatta la valutazione del rischio. Anche nelle due indagini della Commissione femminicidio del Senato – quella sulla violenza domestica nel sistema giudiziario e quella sul femminicidio presentata ieri – emerge con chiarezza come la violenza maschile contro le donne sia sottovalutata, i maltrattamenti derubricati a liti in famiglia equiparando la donna che subisce violenza all’uomo che la agisce, gli ordini di protezione applicati poco e senza verificarne con costanza il rispetto. È evidente dunque che qualcosa non va. Manca, come D. i. Re dice da tempo, la formazione specializzata di tutti gli attori che intervengono sulla violenza per contrastarla, per prevenirla, per supportare efficacemente le donne che cercano di liberarsene.

Una formazione che non può essere limitata solo all’illustrazione delle norme. Quello che serve, ora, subito e in maniera continuativa, è una formazione che cambi la percezione e la comprensione del ciclo della violenza e del suo impatto sulle vittime, e che renda consapevoli degli stereotipi e pregiudizi che condizionano non solo lo sguardo, ma anche atti e procedure messi in campo quando le donne si rivolgono alle istituzioni per dire basta. Occorre far propria una lettura della violenza maschile contro le donne che la riconnetta al contesto culturale e sociale in cui siamo immersi, una conoscenza che non può prescindere dal coinvolgimento delle esperte dei centri antiviolenza che questa conoscenza l’hanno costruita in oltre 30 anni di lavoro. Solo così può cambiare la cultura. E solo cambiando la cultura si può prevenire la violenza e la vittimizzazione secondaria. D. i. Re ha contribuito al corso online Never Again, sulla vittimizzazione secondaria nel contesto della violenza contro le donne, che è accreditato dal Consiglio Nazionale Forense. C’è tempo per iscriversi fino al 30 novembre ( www. vittimizzazionesecondaria. it). Un atto concreto, al di là delle parole di questo 25 novembre 2021.

* Presidente di D. i. Re.