Due principi, non sempre destinati a incrociarsi: pieno accesso dei cittadini alla giustizia ed efficienza del sistema. Sul sottile e complicatissimo algoritmo che regola la sintesi fra i due obiettivi si gioca l’intera riforma del processo, e non solo di quello civile. Anzi, nell’equilibrio fra effettività della tutela e celerità della risposta si coglie l’intero dilemma della giustizia al tempo del Pnrr. La guardasigilli Marta Cartabia si è sforzata di raggiungere quell’equilibrio. In alcuni casi, l’esito della riforma civile, che proprio domani dovrebbe approdare alla Camera per l’approvazione definitiva, è consistito in interventi sul rito — in particolare sulla fase introduttiva — che hanno sfidato i limiti del parossismo, nel loro tentativo di costringere i tempi attraverso vincoli alle parti e agli avvocati. Ma su altri versanti il ddl che più di tutti, forse, suscita l’apprensione dell’Ue, promette di ottenere alcuni risultati notevoli. E il discorso vale in particolare per le soluzioni alternative delle controversie. Nella riforma si compie uno sforzo anche economico per potenziarne l’effetto. È vero che tale beneficio, a guardare la forma assunta dal ddl dopo i decisivi emendamenti Cartabia introdotti al Senato, si concentrano in modo preponderante sulla mediazione, civile e commerciale, e assai meno su altri strumenti. Ma è anche vero che l’idea di “risolvere la controversia attraverso un accordo”, per citare la relazione tecnica con cui il governo illustra i ricordati emendamenti, è un principio che meglio di qualunque altro coniuga lo sforzo efficientista con il rilievo della funzione svolta dall’avvocato.

MEDIAZIONE: VALORE CIVILE PER IL FORO, UTILITÀ NELL’OTTICA DELLO STATO

Basta citare un altro passaggio della relazione tecnica, nella parte relativa appunto al rafforzamento degli incentivi fiscali alla mediazione: si punta a «realizzare da un lato l’obiettivo di una più ampia adesione alle procedure stragiudiziali da parte dei singoli interessati ed in particolare all’istituto della mediazione sia come mezzo obbligatorio che preventivo di deflazione del contenzioso, e dall’altro», scrive il governo, a «garantire sia una risposta della giustizia che consenta un effettivo accesso al sistema sia un potenziamento di tale strumento, che svolga una funzione di filtro per la risoluzione delle controversie, con positivi effetti sulla celerità e sulla certezza del diritto». In pratica il discorso è: la risposta di giustizia deve tenere insieme esigenze diverse, quelle del cittadino e quelle della “macchina”, anche a costo di filtrare l’accesso alla causa civile vera e propria, perché solo in base a una logica del genere riduciamo il contenzioso e velocizziamo il sistema. Non che il discorso sia sgradevole. È solo privo di un accenno che invece l’avvocatura, nelle sue componenti più favorevoli alle Adr, non manca mai di enfatizzare: comporre i conflitti con un accordo è in sé motivo di una buona giustizia, non a caso possibile in virtù del supporto tecnico del difensore. Conciliare insomma, per l’avvocato, è strumento di civiltà e di coesione civile. Dal punto di vista dello Stato, almeno del governo attuale, conciliare è invece soprattutto un’opportunità di sveltire la macchina. Da punti di vista assai diversi si converge sullo stesso obiettivo. È forse lo snodo della riforma civile che meglio realizza questo piccolo miracolo.

GIUSTIZIA ALTERNATIVA? SÌ, FINCHÉ CONVIENE AI CONTI PUBBLICI

Si può dire che il governo, e il ministero della Giustizia, abbiano manifestato un radicale cambio di prospettiva sulla necessità delle Adr? Sì ma entro certi limiti. Lo si può rilevare da qualche contraddizione nel piano della riforma, in cui alle Adr è riservato l’articolo 2. Da una parte si contano numerosi interventi per incoraggiare il ricorso alla mediazione: per esempio, l’incremento dell’esenzione dall’imposta di registro, che da solo vale circa 3 milioni di euro, o un credito d’imposta esteso al compenso degli avvocati, (oltre che agli organismi di mediazione) con un tetto innalzato dai 500 a 600 euro. C’è una filosofia chiara in altre sfumature della riforma, per esempio l’ulteriore credito d’imposta introdotto in relazione al contributo unificato ma concesso solo se si verifica l’effettiva estinzione del giudizio. E ancora si potrebbe citare l’allargamento del patrocinio a spese dello Stato alle stesse procedure di mediazione e di negoziazione assistita, sempre attraverso un credito d’imposta, che in questo caso va a compensare il mancato introito per l’organismo. Però, a fronte di tutto questo, si prefigura un monitoraggio sulla sostenibilità complessiva degli interventi (il solo credito per la mediazione comporta un maggior costo di 39 milioni di euro annui) con una curiosa “norma di chiusura”: qualora si verifichi uno scostamento finanziario rispetto alle previsioni di spesa si rimedia con un incremento del contributo unificato. Come a dire: lo Stato è si disposto ad avvicinare i cittadini alla giustizia attraverso il maggior uso delle Adr, ma solo perché nel complesso la partita dovrebbe essere economicamente vantaggiosa; se non fosse così, il principio dell’accesso facilitato alla giustizia verrebbe subito rinnegato, con l’innalzamento di quella barriera economica, il contributo unificato, già oggetto del maldestro intervento in legge di Bilancio.“

TAGLI” IN EXTREMIS SULLA NEGOZIAZIONE, MA SULLE ADR SI COGLIE LO SCATTO CULTURALE

Sono luci alterne ad ombre. Di continuo. Si pensi a un altro dei passaggi controversi della riforma, già ben radicato nel testo Bonafede: l’utilizzabilità nel successivo giudizio delle prove raccolte in fase di negoziazione assistita. In apparenza, un modo per esaltare la funzione dell’avvocato quale figura in grado di sussumere il servizio giustizia. Dopodiché, negli emendamenti conclusivi è scomparsa la previsione del maggior compenso, fino al 30 per cento, che sarebbe spettato al difensore per il risparmio concesso al giudice su quell’istruttoria. Norma dunque in parte svuotata, certamente indebolita, con un cinismo che un po’ tradisce le buone intenzioni. Eppure s’intravede in altre sfumature la ricezione di una cultura dei riti alternativi tipica dell’avvocatura. Un esempio è il peso accordato, nel “rinnovato” articolo 2 del ddl civile, agli artefici materiali della mediazione, e in particolare alla solidità del loro percorso formativo: si prevede che la durata della formazione, per i mediatori, debba aumentare, e che vadano ampliati “i criteri di idoneità per l’accreditamento dei formatori teorici e pratici”. Si scorge dunque la consapevolezza del fatto che radicare nel sistema il ricorso alle soluzioni alternative richiede innanzitutto uno sforzo complessivo di crescita culturale. Se ne ricava analogo segnale dallo spazio riservato nel disegno di legge delega a un istituto particolarmente apprezzato dalle istituzioni forensi qual è la mediazione demandata dal giudice: il testo del ddl evoca esplicitamente l’incentivo “immateriale” della “stretta collaborazione fra uffici giudiziari, università, avvocatura, organismi di mediazione, enti e associazioni professionali e di categoria sul territorio”. E anche qui si attribuisce il necessario peso alla “formazione degli operatori”, innanzitutto dei magistrati. Quale può essere il giudizio conclusivo? Se ne può azzardare uno evolutivo, per così dire. Lo Stato, il governo, si inoltra con una scommessa fin troppo “calcolata” sul terreno delle Adr: gioca ma rischia poco. Eppure, grazie al fatto stesso di collaudare con più convinzione un terreno ritenuto prezioso da tanti avvocati, se ne potrebbero scoprire risorse persino sottovalutate. Fino a decidere, magari fra qualche anno, che gli investimenti per potenziare le soluzioni stragiudiziali delle controversie, se davvero se ne vorrà incrementare la diffusione, possono essere anche più coraggiosi.