La storia di Ramy Shaath ricorda in modo inquietante quella di Patrick Zaki, lo studente egiziano all’università di Bologna imprigionato in un carcere del Cairo dal febbraio del 2020 per «eversione», «minaccia alla sicurezza nazionale» e «fiancheggiamento del terrorismo».

Attivista di origine palestinese, Shaat da oltre due anni e mezzo è detenuto nella prigione di Tora, pochi chilometri a sud della capitale, con le stesse, vaghe accuse, del povero Zacki.

La sua unica fortuna è di essere sposato con una cittadina francese, Céline Lebrun- Shaath, che da venti mesi si sta battendo come una leonessa per la sua liberazione, portando il caso sulla ribalta mediatica e interrogando senza sosta il mondo politico transalpino. Una petizione per la rimessa in libertà di Shaat è stata ufficialmente firmata da circa duecento deputati dell’Assemblea nazionale, ma senza alcun esito concreto.

Eppure i rapporti tra Parigi e il Cairo sono eccellenti e il presidente Macron dispone di tutte le armi diplomatiche per esercitare pressione sul presidente al Sisi. «In questi due anni e mezzo ci sono stati incontri bilaterali, vertici, telefonate, ma mio marito rimane in prigione anche se non ha fatto nulla di male. Non dubito della buona fede delle nostre autorità, di sicuro metto in discussione la loro efficacia», spiega la donna al quotidiano Le Monde. Anche se non ha mai accusato l’Eliseo, molti attivisti che oltre le Alpi si stanno occupando del caso denunciano da tempo la totale accondiscendenza della Francia nei confronti dell’Egitto sulla questione dei diritti umani, sacrificati sull’altare dei mutui interessi economici. Gli accordi commerciali tra le due nazioni sembrano così più importanti del destino di Ramy Shaat. La prossima finestra utile sarà l’ 11 novembre, con la visita ufficiale di al Sisi a Parigi, dove incontrerà Macron. Lo scorso anno il presidente francese aveva evocato timidamente il caso nel corso di un viaggio al Cairo, senza però ricevere alcuna risposta concreta. In compenso ha reagalato ad al Sisi la prestigiosa Legion d’onore, suscitando l’indignazione di chi da quasi 30 mesi si batte per la liberazione dell’attivista.

Shaat è stato arrestato nel 2019 mentre partecipava a una manifestazione contro il regime del generale al- Sisi. Nessuno scontro con la polizia, nessuna tensione di piazza, la sua unica colpa era il dissenso.

Figlio di Nabil Shaat, uno storico dirigente dell’Anp ex negoziatore e consigliere di Abu Mazen, Shaat partecipò nel 2011 al movimento delle primavere arabe che portò alla caduta di Hosni Mubarak, finendo dopo il golpe del 2015, nel mirino della giunta militare, decisa a sbarazzarsi di qualsiasi embrionale movimento di opposizione. Pressioni su al Sisi sono arrivate anche da Ramallah da parte della dirigenza dell’Anp, ma anche in questo caso si sono rivelate inutili. L’uomo resta dietro le sbarre.

Anche perché la macchina della repressione politica funziona a ritmi spasmodici e non guarda in faccia nessuno.

Se i Fratelli Musulmani sono stati messi fuori legge e i loro militanti arrestati in massa, ci sono migliaia di attivisti “laici” finiti individualmente nelle maglie della terrificante giustizia egiziana.

La gran parte di loro è composta da “invisibili”, persone di cui nessuno conosce l’identità e la sorte, sepolte nelle cupe prigioni egiziane, piene zeppe di prigionieri politici.

«Ramy non ha ricevuto nessun capo formale di imputazione, non c’è stata nessuna inchiesta giudiziaria nei suoi confronti. Il regime egiziano utilizza infatti la carcerazione preventiva come strumento per mettere a tacere qualsiasi voce critica, sbattendo in prigione dei cittadini senza processo e solo per le loro opinioni politiche», continua la moglie di Shaat, che venne espulsa dall’Egitto pochi giorni dopo l’arresto del marito.

Da allora ha avuto diritto solo a delle brevi visite in prigione, ma le è vietato di soggiornare al Cairo per più di 24 ore.