«Ho capito sulla mia pelle quanto sia importante la presunzione d’innocenza. Dobbiamo valutare che dall’altra parte ci sono esseri umani che si vedono “sputtanare” gratis, senza alcun riferimento al procedimento penale». A parlare della pubblicazione degli atti del caso Open è Alfonso Sabella, ex magistrato del pool antimafia di Palermo che catturò Giovanni Brusca, Leoluca Bagarella e Pietro Aglieri, oggi giudice a Napoli. Che chiarisce: il Fatto quotidiano non ha commesso nessun illecito nel rendere note le strategie di Matteo Renzi per contrastare i propri avversari. Ma «c’è anche il diritto dell’indagato alla sua privacy e se necessario vanno introdotti dei limiti».

Gli atti pubblicati dal Fatto Quotidiano su Renzi sono, da un lato, un documento di enorme interesse per l’opinione pubblica, ma dall’altro rimangono comunque privi di rilievo penale. C’è un cortocircuito tra diritto all’informazione e privacy?

Quando gli atti sono noti all’indagato viene meno qualunque tipo di divieto di pubblicazione, ma è chiaro che ci muoviamo in un terreno minatissimo, in cui, da un lato, c’è l’interesse all’accertamento della verità da parte della procura e, dall’altro, l’interesse all’informazione in ordine a notizie che possono avere un interesse pubblico. Ma c’è anche il diritto dell’indagato alla sua privacy e credo che, in certi casi, vada rispettata. Le faccio un esempio: quando arrestai Pietro Aglieri, numero due di Cosa Nostra, ci riuscii seguendo un prete che andava a dire messa nel suo covo. Feci settimane di intercettazioni delle telefonate di quel convento e quelle telefonate, che non erano rilevanti, le ho mandate al macero. E nessuno le ha mai conosciute, ancorché ci potessero essere delle cose pruriginose che potevano interessare a varie persone. Occorrerebbe verificare se non ci siano spazi per introdurre, in qualche caso, dei divieti di pubblicazione. Penso, ad esempio, alle notizie che riguardano i conti correnti bancari.

Anche questo è avvenuto nel caso che riguarda Renzi. Si sarebbe potuto evitare?

Se non è utile ai fini dell’indagine, per quale ragione renderli noti? Dovrebbero esserlo solo i dati che vengono utilizzati nel provvedimento cautelare, ai fini del rinvio a giudizio o ai fini della prova nel procedimento penale. Ammettiamo che in un conto corrente ci sia un addebito per una notte in albergo con l’amante: perché dovrebbe venire a saperlo la moglie? Mi sono confrontato spesso con dati di questo tipo e ho cercato sempre, per quanto consentitomi dalla legge, di mantenerli riservati. Ma è chiaro che non posso fare una valutazione del genere da solo. Come pm posso cercare di omettere cose di questo tipo, ma quello stesso dato potrebbe essere utile alla difesa. E questa, però, a volte diventa la foglia di fico per utilizzare o pubblicare dati riservati.

Come si potrebbe fare?

Per le intercettazioni telefoniche è prevista, ad esempio, un’udienza stralcio in cui, sostanzialmente, la difesa evidenzia quali sono i file che possono servire e quali, invece, possono essere mandati al macero. Probabilmente, per altri dati sensibili che vengono acquisiti nel corso delle indagini, bisognerebbe pensare a qualcosa di questo tipo.

Secondo lei è fattibile?

Il problema è che tutto questo va fatto avendo un occhio al funzionamento del processo penale, perché introdurre ancora paletti e limiti significa andare a gravare su un’unica figura processuale: il gip. O si capisce che i gip devono essere tanti quanto i pm oppure faremo un buco nell’acqua, perché il sistema non potrà mai reggere. Se vogliamo delle riforme che tutelino realmente il diritto all’informazione, il diritto alla privacy e l’esercizio dell’azione penale, allora dobbiamo cercare di avere una struttura che sia in grado di gestire tutto questo. Perché tutto va fatto, ovviamente, nel contraddittorio delle parti: tornando all’esempio di prima, magari quella ricevuta che attesta un tradimento viola la privacy, ma può essere l’alibi per una persona accusata di omicidio. E per carità, mi rendo conto che non è bello, ma forse bisognerebbe anche introdurre qualche divieto di pubblicazione.

C’è il rischio anche di entrare a gamba tesa nelle strategie politiche di un partito, deprecabili o meno che siano?

Faccio un esempio brutale: quando ero assessore alla legalità, l’allora sindaco di Roma Ignazio Marino decise di pubblicare le sue spese, i famosi scontrini, senza consultarmi. Ed è una cosa che non gli perdonerò mai, perché se mi avesse consultato glielo avrei impedito.

Per quale ragione?

Per la violazione della privacy del commensale. Per quale ragione Marino doveva far sapere all’ambasciatore del Vietnam che aveva pagato la cena a quello della Cambogia e non a lui? Per quale ragione doveva far sapere ai suoi compagni di partito che aveva offerto un pranzo ad un parlamentare dell’opposizione? Erano elementi di grande riserbo e anche di esercizio libero dell’attività politica.

Nel caso di Renzi è la stessa cosa?

È chiaro che, allo stato attuale delle norme, il Fatto quotidiano ha fatto il suo dovere. Se io fossi stato un giornalista avrei pubblicato quelle notizie. Probabilmente vanno inseriti dei limiti nel sistema, limiti commisurati alla capacità stessa del sistema di reggere. Oppure diventerebbero una farsa, perché il giudice non avrebbe il tempo materiale di valutare quali sono le informazioni che possono essere eliminate. Dobbiamo pensare un sistema penale con un doppio binario serio, con tutte le garanzie del mondo agli illeciti importanti e un grado di giudizio più la Cassazione per gli illeciti bagatellari o tutto ciò che non comporta pene detentive, facendo una depenalizzazione serissima. Anche il rispetto delle garanzie e della privacy passa per una riforma radicale del sistema giustizia, ma non ne siamo in grado. Se oggi introducessero un altro limite o un’altra verifica il risultato sarebbe la paralisi. Ma dobbiamo anche valutare che dall’altra parte ci sono esseri umani che si vedono “sputtanare” gratis, senza riferimenti al procedimento penale.

Cosa ne pensa del recepimento della direttiva sulla presunzione d’innocenza? Molti suoi colleghi l’hanno definita un bavaglio.

Se io non avessi vissuto la mia storia personale, sarei con i miei colleghi a pensare che tutte queste norme, probabilmente, limitano l’esercizio corretto dell’azione penale. Ma avendo capito quanto sia importante la presunzione d’innocenza sulla mia pelle, sono perfettamente d’accordo sull’introduzione di queste norme e che se ne facciano altre. Senza la mia esperienza avrei ipotizzato il mondo ideale di una giustizia che non sbaglia mai e che dà a tutti la possibilità di difendersi. Ma a me, in 20 anni, non è mai stata data. Su di me si è creata una presunzione di colpevolezza fondata sul nulla. E la maggior parte delle persone che mi ha rovinato la vita ha la toga.