di IVANO IAI (avvocato)

Nessuno più dell’amministratore pubblico conosce gli offendicula che insidiano il programma contenuto nell’art. 97 Cost., infestato da antiregole, eterogene e sistemiche, più radicate delle regole, che asserviscono l’interesse generale a finalità antitetiche alla sua cura istituzionale. Anziché eleggere solo i migliori, l’amministrazione pubblica, cuore del governo sociale e democratico, soffre l’assenza di merito eccellente ed è condizionata da prospettive e scopi personali che minano la tenuta del benessere collettivo. Occorrerebbe riflettere, ogni tanto, sul perché menti illuminate non seggono nei governi del Paese, pur restandone comunque al servizio. Sono, queste, portatrici, di quel merito corruttifugo che ha effetti sanificanti e scardina i contrafforti delle devianze individuali. La corruzione pubblica, spesso alimentata dal fondo limaccioso dei compromessi, è qualsiasi fatto di malcostume che alteri le corrette finalità di realizzazione del bene comune, determinando il progressivo decadimento dell’amministrazione e della società. Eppure la Costituzione sollecita i titolari di munera publica ad agire occupandosi delle persone umane e giuridiche secondo eguaglianza, rifuggendo differenze ambigue (art. 3), per riconoscerne e garantirne i diritti inviolabili e pretenderne l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (art. 2). Se potessimo mettere a confronto le condotte corruttive del passato con le attuali resteremmo impressionati da una situazione invariata che neppure lo sviluppo sociale e culturale cui si deve il superamento di terribili forme di ingiustizia è riuscito a invertire. A fronte delle sofferte conquiste per il riconoscimento dei diritti di ciascuna persona umana, la protezione delle fasce deboli e delle differenze minoritarie e di genere, la tutela della proprietà privata e dell’impresa in armonia con l’utilità sociale, è un’involuzione paralizzante che caratterizza l’amministrazione della cosa pubblica, il cui rispetto, anziché costituire l’approccio naturale dei tanti, risulta invece confinato nelle attitudini di pochi che per indole, senso del dovere o, semplicemente, spaesata abitudine mentale (così descritta da Italo Calvino nel celebre Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti) tentano di arginare impotenti il gravissimo disastro, umano, sociale, culturale ed economico, al ripetersi dell’attualissimo monito di Catone fures publici in auro atque in purpura. L’effetto più lacerante della corruzione è, perciò, il continuo profitto ingiusto dei disonesti e l’impoverimento dei virtuosi e della società alla quale appartengono insieme ai primi, i cui vizi appaiono come paradossali virtù nella favola delle api di Mandeville. Per gli studi evolutivi della specie umana l’homo corruptus rappresenta un regresso rispetto all’acquisita abilità di camminare, parlare, agire, ragionare e conferma che la corruzione è il risultato di un processo filogenetico di mutamento della condizione individuale determinato principalmente dal contesto in cui questi sviluppa la propria personalità. Il tradimento dei valori umani fondamentali può, però, essere scongiurato realizzando un contesto sociale e culturale opposto alle ambiguità che ne sono la genesi, con l’educazione dell’individuo al riconoscimento e al rispetto consapevoli di ciascuna persona e bene della comunità naturale, essenza di ciò che è la cosa comune: in una giustizia di incorruttibili Cicerone ha davvero sperato fino all’estrema decisione dell’esilio tuscolano, ma l’auspicio che l’interesse pubblico sopravanzi l’umana privata ingordigia non può restare mera utopia. Tutti si è chiamati alla sensibilità e all’impegno, ma siano soprattutto le nuove generazioni di pubblici amministratori a dimostrare fedeltà alla Costituzione e alle leggi dello Stato, nel rispetto sacrale della persona, dando esempio di cura delle necessità comuni e mai delle proprie.