È al 41 bis da 29 anni. Un tumore diagnosticato tardi nel carcere de L’Aquila, nonostante le sollecitazioni per una visita rimandata dopo due mesi. Dopo l’operazione di urgenza, viene subito portato via con un blindato e ammanettato nonostante le ferite ancora non rimarginate. Richiede un permesso di necessità per poter abbracciare l’ultima volta la madre morente. Rigettata, perché – così scrivono i giudici – non è in pericolo di vita. Dopo una settimana muore. Stessa situazione con il padre: gli rigettano in permesso di necessità per poterlo abbracciare e dopo un po’ muore. Parliamo di Salvatore Cappello, attualmente detenuto nella carcere Mammagialla di Viterbo al 41 bis, che ha indirizzato una lettera al Magistrato di Sorveglianza per rimarcare le numerose violazioni dei diritti che lui denuncia di aver subito. È l’associazione Yairaiha Onlus a segnalare la vicenda alla ministra della Giustizia e al garante nazionale Mauro Palma e quello regionale, Stefano Anastasìa. «Sì sono d’accordo che è un’ingiustizia quella che fanno a Zaki, ma per lo meno Al Sisi le cose le faceva e ci mette la faccia, mentre qui parlate di democrazia e poi siete peggio della Turchia. Qui condannate il re e tutta la famiglia: che colpa aveva mia madre, mio padre che gli avete negato un ultimo abbraccio di un loro figlio?», scrive Cappello nella lettera inviata alla magistratura di Sorveglianza. Sandra Berardi dell’associazione Yairaiha, sottolinea che è difficile non notare la quantità di violazioni che Cappello denuncia di aver subito, a cominciare dal diritto alla salute. «A fronte di un tumore – scrive nella segnalazione alle autorità -, la visita specialistica è stata rinviata per oltre un anno nonostante le continue richieste del medico e l'aggravarsi delle condizioni fisiche; il rientro postoperatorio in carcere ammanettato in un blindato nonostante le ferite non ancora rimarginate e la discontinuità nel trattamento chemioterapeutico». Non solo. L’associazione Yairaiha evidenza il discorso dei rigetti delle richieste di permesso di necessità a fronte di genitori morenti che non vedono il proprio figlio da anni, «senza alcun motivo plausibile dove non è stata tenuta in considerazione l'impossibilità assoluta degli ultimi due anni visto che gli unici detenuti, tranne poche eccezioni, a non avere avuto garantiti i video-colloqui sostitutivi di quelli in presenza durante la pandemia sono stati proprio quelli in 41 bis». A questo si aggiunge la disparità di trattamento tra il carcere de L’Aquila e quello di Viterbo dove è attualmente recluso Cappello. Mentre nel carcere abruzzese gli era permesso ricevere il pesce dai famigliari, al carcere di Viterbo glielo fanno buttare. Cappello ha richiesto il permesso premio, ma l’esito è scontato. «Ventinove anni di 41 bis sono un tempo inimmaginabile dove il senso della pena si smarrisce tra divieti assurdi e verifiche dubbie», scrive Sandra Berardi. Il tema è quello delle informative “stereotipate”. «Spesso - evidenzia Berardi - cristallizzate al momento del compimento dei reati piuttosto che fotografanti l'attualità dei collegamenti». Lo stesso detenuto scrive che: «Ma cosa dovrei organizzare se ho detto bello chiaro che ho dato un calcio al passato e come me molte persone?». Se dopo 29 anni, rimane l’attualità del collegamento con il vecchio clan mafioso, allora – scrive Berardi di Yairaiha «delle due l'una: o il 41 bis non funziona e permette di continuare a gestire affari e clan oppure funziona e le informative non sono attuali».