L’ultima frontiera della lite sulla giustizia è la paternità degli errori. A sferrare l’attacco è il Fatto quotidiano di ieri, con un articolo di Lorenzo Giarelli. Obiettivo: Marta Cartabia. Certo non un bersaglio inedito. Alla guardasigilli, il quotidiano diretto da Marco Travaglio contesta il rammarico espresso sulla riforma penale in un recente intervento, tenuto al congresso dei notai. Tante «falsità», per Cartabia, hanno creato «inutili preoccupazioni soprattutto per le vittime dei reati più gravi» e complicato perciò il percorso del ddl. Giarelli e il Fatto si sentono chiamati in causa, al pari di quei magistrati intervenuti nei mesi scorsi per denunciare i rischi dell’improcedibilità. In effetti, come ricorda l’articolo, sono stati gli anatemi di pm come Nicola Gratteri e Piercamillo Davigo a innescare l’ultima barricata del Movimento 5 Stelle, che ha preteso una modulazione più severa, cioè più dilatata, dei tempi di durata massimi nei processi per alcuni reati gravi. In pratica il quotidiano di Travaglio ribalta l’amarezza della ministra e dice: altro che ostacoli alla tua splendida riforma, se non fosse stato per noi e per i magistrati che l’hanno criticata, avresti fatto danni anche peggiori.

Al di là della polemica che è sempre legittima e in fondo vitale per i giornali, Giarelli ricostruisce però la storia in modo fuorviante. Il vero problema della riforma penale non è tanto nella diversificazione delle soglie massime alzate in extremis per soddisfare i pm. Il peccato originale è nella scelta di affidare alla cosiddetta “prescrizione processuale” l’exit strategy dalla legge Bonafede. La quale aveva del tutto abolito, senza contrappesi, il termine di estinzione dei reati. È inutile girarci intorno: il corto circuito si è innescato proprio sulla maniera di risolvere l’abominio creato dalla norma dell’ex guardasigilli, cioè il rischio che alcuni processi — magari in casi eccezionali quanto si vuole ma pur sempre possibili — durassero decenni. Insomma, l’incubo dell’imputato a vita.

In realtà Cartabia aveva in mente il ritorno a un tempo massimo di prescrizione. Tanto è vero che la commissione di esperti da lei insediata a via Arenula, e presieduta da Giorgio Lattanzi, aveva formulato all’inizio una sola proposta, semplice ed efficace: ripristinare la riforma Orlando, già severissima, che allungava i tempi sia in appello che dinanzi alla Cassazione, per un totale di 3 anni. Un rimedio più che sufficiente a garantire che i processi per i reati più gravi si concludessero con una sentenza definitiva. Motivo semplicissimo: quei reati, anche quando non sono imprescrittibili, hanno tempi di estinzione comunque già molto lunghi, in grado di assicurare lo svolgimento di tutte le fasi del processo. Senza chiamare in causa fattispecie anche più odiose, la corruzione in atti giudiziari, con le regole di Orlando, si sarebbe prescritta dopo ventidue anni e mezzo. Una mostruosità. Ma al Movimento 5 Stelle non è bastato. Sono stati loro a dire a Cartabia, e soprattutto agli alleati del Pd, che non avrebbero mai accettato un ritorno alla prescrizione di Orlando, perché sul piano politico ne sarebbe derivato un mortificante colpo di spugna sull’era Bonafede, liquidata come un incidente della storia. Così, il serafico Pd ha partorito la prima ipotesi di “prescrizione processuale” o improcedibilità. Emendamento depositato il giorno 27 aprile nella commissione Giustizia di Montecitorio. Pochi giorni dopo la ministra ha chiesto a Lattanzi di formulare, nella relazione sulla riforma, anche una “Ipotesi B” in materia di prescrizione, alternativa al ripristino della Orlando. E la commissione guidata dal predecessore di Cartabia al vertice della Consulta ha messo giù il “testo base” dell’improcedibilità, non troppo diverso dalla proposta dem. Tutto pur di accontentare i 5 Stelle.

Adesso qual è la beffa? Che mentre con la legge Orlando una corruzione giudiziaria aveva oltre 22 anni a disposizione per produrre l’eventuale condanna, con la tagliola imposta ai tempi del processo anziché alla “anzianità” del reato può verificarsi il seguente paradosso: indagini “velocissime”, facciamo un anno e mezzo, condanna in primo grado fulminea, facciamo due anni, dopodiché se in Corte d’appello non si trovano giudici efficienti, dopo “appena” tre anni il processo stesso muore, appunto per l’improcedibilità. Anziché dopo 22 anni, la ghigliottina si abbatte dopo 6 anni e mezzo, cioè in meno di quanto sarebbe avvenuto con la ex Cirielli. Si tratterà di casi limite, per carità. Ma non è impossibile. La vera bizzarria è che a lamentarsi sia un giornale vicino ai pentastellati, e in particolare a Giuseppe Conte, che sull’improcedibilità ha condotto la mediazione finale con Draghi. Sono loro, i 5S, ad aver costretto Cartabia a quella soluzione. E forse ora è anche legittimo che la ministra si lamenti per una scelta imposta da ragioni solo politiche e certo non tecnico- processuali. L’unica cosa che proprio non si può sentire è una morale alla guardasigilli fatta dallo stesso fronte responsabile della forzatura. Vogliamo chiamarla faccia tosta, senza offesa? Di sicuro, non si vede una sintesi che renda meglio l’idea.