«Il magistrato sia protagonista virtuoso di corretta comunicazione e di ogni utile interlocuzione nel dibattito sui temi della giustizia! Ma sia capace di esserlo con misura». A dirlo non è la ministra della Giustizia Marta Cartabia, né il deputato di Azione Enrico Costa, che pure, di certo, non si troverebbero in disaccordo con tale affermazione. L’esortazione è invece contenuta nella lezione tenuta a gennaio scorso dall’ex procuratore di Torino Armando Spataro alla Scuola superiore della magistratura, anticipando così di diversi mesi il recepimento della direttiva europea sulla presunzione d’innocenza. Un vero e proprio vademecum, rappresentato, in primis, dalle circolari della stessa procura di Torino, che sotto Spataro, dal 2014 al 2018, ha fatto della comunicazione sobria ed essenziale, rispettosa dei diritti di tutti, una regola aurea. Nessuna generalizzazione, né scivoloni nel populismo, solo una certezza: le toghe non possono e non devono aspirare al ruolo di moralizzatori della società. E la stampa, se vuole fare un buon lavoro, deve evitare il processo mediatico, i titoloni ad effetto, verificando i fatti e accedendo alle notizie senza tentare di creare, magari violando i doveri deontologici, dei canali privilegiati: solo così renderà un vero servizio alla giustizia. L’invito di Spataro ai colleghi è quello di «evitare i tentativi di “espansione” a mezzo stampa del proprio ruolo fino ad includervi quelli degli storici e dei moralizzatori della società». Un rischio concreto, per quanto i magistrati showman, secondo l’ex procuratore, siano comunque una minoranza. Ma tanto basta a creare quel meccanismo perverso che distorce l’immagine della giustizia.

La febbre da talk show

Il dovere di informare è naturalmente irrinunciabile, evidenzia, «purché esercitato nei limiti della legge, del rispetto della privacy e delle regole deontologiche, ma è anche necessario che i magistrati si guardino bene dal contribuire a rafforzare un’ormai evidente degenerazione informativa, che spesso determina febbre “giustizialista”, alimentata da mostruosi “talk-show” ed attacchi alla politica ingiustificatamente generalizzati». Una vera e propria deriva, denuncia Spataro, di cui i magistrati non sono, ovviamente, gli unici responsabili: anche la polizia giudiziaria, i giornalisti, i politici e gli avvocati possono contribuire alle «strumentalizzazioni», con il risultato di produrre «informazioni sulla giustizia prive di approfondimento e di verifiche, e che sono caratterizzate dalla ricerca di titoli e di forzature delle notizie al solo scopo di impressionare il lettore». Il rapporto tra giustizia ed informazione è infatti tutt’altro che secondario nell’amministrazione della giustizia ed è anzi, secondo Spataro, uno dei pilastri della sua credibilità. E in caso contrario, l’effetto è quello di generare tra i cittadini «errate aspettative e distorte visioni della giustizia, in sostanza disinformazione, così determinando ragioni di sfiducia nei confronti della magistratura e conseguente perdita della sua credibilità». Ecco perché, dunque, la direttiva sulla presunzione d’innocenza non appare peregrina, nonostante i timori di chi vede in essa un tentativo di imbavagliare pm e stampa. La mediatizzazione dei magistrati, infatti, può rappresentare la spia di una propensione «ad accrescere, per quelle vie, la popolarità della propria immagine, anche a costo di non rispettare il dovere di riservatezza proprio dell’attività giudiziaria». E se l’informazione sulla giustizia è «certamente necessaria», occorre precisarne «contenuti e confini, anche nel rispetto dei principi che disciplinano la tutela della privacy».

Giusto processo e processo mediatico: le conferenze stampa

Il giusto processo, afferma l’ex magistrato, non dipende solo da quanto avviene in aula, ma anche da ciò che accade fuori, ovvero «grazie a notizie giuste e vere, conoscibili entro i limiti previsti per le varie fasi processuali e contenenti esclusivamente riferimenti ai fatti che sono oggetto del processo». Ma lo stesso può essere inficiato dalla «tendenza al protagonismo individuale», un problema reale, ammette, «connesso alla convinzione di alcuni pm di potersi proporre al Paese, attraverso la diffusione mediatica di notizie sulle proprie indagini, spesso enfatizzate, come eroi solitari, unici interessati alle verità che i poteri forti intendono occultare». Un atteggiamento da cassare, mentre «sono preferibili quei magistrati che non cercano consenso (specie nelle piazze gremite) e che lavorano con riservatezza e determinazione». Su tutti prevalgono i doveri di «verità e sobrietà informativa, specie quando i fatti sono oggetto di indagine e non ancora di una sentenza, sia pure di primo grado». Ed è obbligo dei procuratori «intervenire per correggere le fake news», che rischiano di compromettere anche la funzione giudiziaria. Altro capitolo quello delle conferenze stampa, che Spataro, in tutta la sua carriera, ha convocato solo tre volte: «La prima per denunciare pubblicamente, insieme agli avvocati, il grave deficit di personale amministrativo dell’Ufficio; la seconda per illustrare i risultati ostensibili delle indagini sui gravi fatti verificatisi in Torino, in Piazza San Carlo, il 3 giugno 2017 (che avevano scosso l’intera città) e l’ultima per presentare pubblicamente le direttive emesse il 9 luglio 2018 in tema di priorità da accordare alla trattazione dei reati connotati da odio razziale ed al fine di velocizzare le procedure relative ai ricorsi avverso il rigetto delle richieste di protezione internazionale (argomenti, cioè, che richiamavano attualità e diritti fondamentali delle persone)». Da qui la critica alle conferenze-show con tanto di forze di polizia schierate in divisa dietro ai magistrati.

Informazione e giustizia, il principio dell'essenzialità

La critica di Spataro è dura, anche e soprattutto contro l’inaccettabile prassi lanciare proclami, «del tipo “si tratta della più importante indagine antimafia del secolo” o “finalmente abbiamo scoperto la mafia al Nord”, così proponendosi come icone - categoria purtroppo in espansione - per le piazze plaudenti». Ma anche i comunicati stampa, spesso, cedono al sensazionalismo, offrendo alla stampa anche stralci di intercettazioni o spunti critici verso giudici o avvocati, «oppure affermazioni apodittiche quasi che le tesi dei pm esposte nei comunicati rappresentino la verità inconfutabile, definitivamente accertata, insomma un anticipo di sentenza. Niente di più lontano, insomma, dal senso del limite e dall’etica del dubbio cui devono conformarsi le parole di un pubblico ministero prima della decisione del giudice». Limitarsi all’essenziale e ricordare «la provvisorietà delle valutazioni del giudice (non del pm) sulle responsabilità delle persone sottoposte a misura cautelare, evitando citazione di nomi e diffusione di fotografie o comunicazione di dati sensibili almeno ove tali nomi ed immagini non siano noti per altri fatti oggettivi» è invece il metodo giusto. Ma Spataro invita i colleghi anche a rifuggire da quella tendenza che spinge i magistrati a ritenersi «depositari della morale collettiva». Il loro compito è infatti un altro: «Mettere a nudo la verità con prove inconfutabili». E questo comporta un limite: «Se quelle prove non si raggiungono, il magistrato, pur se convinto del fondamento della ipotesi accusatoria da cui si è mosso, ha esaurito il suo ruolo, deve considerare i limiti della giustizia umana e se è un pubblico ministero deve saper ragionare come un giudice e comunque rimettersi alla decisione finale dei Tribunali e delle Corti rispettandola fino in fondo». Ciononostante, per una minoranza dei magistrati il rilievo mediatico del proprio lavoro è quasi più importante del suo esito: «La pubblicazione della notizia di una indagine sui giornali, specie se con modalità tali da captare l’attenzione del lettore, rischia in tal modo di diventare per molti più importante della futura sentenza». E prova ne è anche l’invasione delle sale da talk-show da parte di magistrati o ex magistrati, definiti da Spataro «i nuovi mostri», un’ulteriore ragione «di perdita di credibilità dell’ordine giudiziario».