Pubblichiamo un estratto dell’intervento dal titolo “Giustizia dei diritti e dei processi” del professor Giovanni Fiandaca nell'ambito della Terza edizione di Futura, “Renew South”, la scuola di cultura politica ideata da Davide Faraone Le scuole di cultura politica sono meritevoli e necessarie, soprattutto in un momento di crisi della politica e dell’affermarsi di fenomeni devianti di populismo politico che hanno creato l’illusione che per fare politica non servono competenza. E invece, soprattutto in materia di giustizia, ci vogliono competenze assai profonde, visto che sono molti e complessi i nessi tra giustizia e politica. Vorrei partire dal titolo che è stato dato al nostro incontro: “Dei diritti e dei processi”, che richiama il Beccaria “Dei delitti e delle pene”. Come mai c’è questo nesso tra diritti e processo? Si parte forse dal presupposto che i processi giudiziari siano lo strumento migliore di riconoscimento e promozione dei diritti? Il tema dei diritti è un tema complesso che incrocia il diritto in generale e nei suoi diversi ambiti, a cominciare da quello costituzionale, poi dal diritto civile e in modo più complicato anche da quello penale. Ma il tema dei diritti incrocia anche la filosofia politica, la filosofia giuridica e la scienza politica, perché storicamente i diritti si affermano da quando prendono il sopravvento concezioni filosofiche che pongono al centro della riflessione l’individuo e, parliamo della seconda metà del ‘500, dal momento in cui viene teorizzata l’esistenza di diritti naturali dell'uomo che preesistono allo Stato e che i legislatori sarebbero tenuti a riconoscere. Fare però riferimento solo ai diritti può essere fuorviante, perché può indurre a trascurare il versante dei doveri richiamato anche nell’articolo 2 della nostra costituzione. Siccome viviamo un’epoca storica in cui poniamo l’accento sui diritti, terrei sempre presente che i diritti hanno o dovrebbero avere un corrispettivo nei doveri.

Comunità Lgbt, fine vita, affettività in carcere. Come nascono i nuovi diritti (secondo Giovanni Fiandaca)

Nel corso degli anni abbiamo assistito all’emersione di diritti di diversa natura. I primi diritti verso cui lo Stato ha un obbligo di astensione: libertà personale, il diritto alla vita, il diritto ad associarsi e così via. Poi sono sorti i diritti sociali: il diritto al lavoro, all’assistenza sociale, alla salute. I diritti sociali per essere rispettati però presuppongono non un obbligo di astensione da parte dello Stato ma prestazioni in positivo e il loro soddisfacimento richiede anche un impegno economico.In una terza fase sono sorti i diritti biopolitici. Ci chiediamo: esiste un diritto al sucidio? Le diverse Costituzioni europee sono in contrasto. La Corte Costituzionale tedesca, per esempio, lo riconosce; mentre quella italiana no. Esiste poi il diritto delle minoranze omosessuali e transessuali a non essere discriminati. Questo è un nuovo diritto oggetto del ddl Zan.Faccio una provocazione: in una democrazia costituzionale in cui il diritto penale non dovrebbe essere particolarmente invasivo, è giustificato che sia una legge penale lo strumento di affermazione e promozione di un diritto all’identità sessuale? Ed è giustificato che una legge penale faccia propria l’ideologia dell’identità di genere in un contesto politico caratterizzato dal principio del pluralismo, ovvero l’affermazione di un processo di identità dovrebbe essere affidato al confronto culturale e sociale? Esiste un diritto all’effettività e alla sessualità dei detenuti? Questo è un altro nuovo diritto che è sorto da qualche tempo all’orizzonte. Ma da dove nascono questi diritti che sto enumerando? Il diritto a lasciarsi morire, il diritto delle minoranze omosessuali ad essere tutelate, il diritto all’affettività. Per esempio, una sentenza di pochi giorni fa della Cassazione ha affrontato la seguente questione: se il soggetto recluso perché condannato abbia il diritto a potersi comprare un giornaletto pornografico che nelle aspettative del detenuto dovrebbe servire ad agevolare un’attività autoerotica con la fantasia. La Cassazione l’ha risolta in maniera discutibile, culturalmente povera, negando il diritto perché, ritiene, il giornaletto pornografico non è una condizione necessaria per autosoddisfarsi con atti erotici. Questo esempio presenta aspetti che fanno comprendere la difficoltà di come nascono e come si riconoscono i diritti. Domanda: in una democrazia costituzionale come la nostra, sarebbe preferibile che i diritti vengano definiti e precisati nel loro contenuto dal potere politico, il parlamento, o è preferibile, come è avvenuto negli ultimi decenni, che l’elaborazione di nuovi diritti, rimanga affidata alla giurisprudenza, al potere giudiziario, ai giudici? Nel nostro paese, come in altri paesi, è avvenuto che i nuovi diritti siano stati riconosciuti innanzitutto dalla giurisprudenza, dalla Corte Costituzionale. E l’enucleazione di nuovi diritti è avvenuta attraverso l’interpretazione in chiave estensivo-evolutiva di diritti espressamente riconosciuti dal legislatore. Ora, lascio a voi questo interrogativo: la sede privilegiata della razionalità discorsiva, in un ordinamento democratico, risiede nel Parlamento o in un collegio di giudici? Chi è più competente e più legittimato ad elaborare nuovi diritti? È un fatto che i giudici abbiano avuto sempre più spazio nella creazione di nuovi diritti perché la giurisdizione è diventata la sede che esercita una funzione cosiddetta “contromaggioritaria”: cioè la funzione di riconoscere istanze, aspettative e diritti che la politica ufficiale e maggioritaria non è capace di riconoscere o per i contrasti di orientamento politico esistenti tra le forze politiche o perché in contrasto con le scelte governative maggioritarie. Per cui la giurisdizione è diventata una sorta di terreno di compensazione per tutto ciò che la politica maggioritaria non riesce a fare. Ma i giudici hanno più capacità intellettuale e saggezza per riconoscere i diritti? C’è un filosofo della politica molto importante, John Rawls, il quale ritiene che sia la giurisprudenza la sede giusta e non più il parlamento, che avrebbe perduto in competenza e legittimazione nel corso del tempo.

Il processo e la giustizia penale

Per parlare di giustizia penale, non dovremmo parlare solo di processi. Vale la pena concentrarsi sulla giustizia e il diritto penale perché sono i settori più violenti e intolleranti dell’ordinamento giuridico. Sono i settori che più mettono a rischio le libertà e i diritti fondamentali dei cittadini. E d’altra parte la giustizia penale è quella che oggi è al centro del dibattito e del conflitto politico. È un’arma a doppio taglio: da un lato macchina di potere che può stritolare i soggetti indagati e imputati; dall’altro è istituzione di garanzia. Ha un volto ambivalente, strutturalmente contraddittorio: è oggetto di tutela di beni, interessi e diritti, ma al tempo stesso limita e sacrifica diritti e interessi dei soggetti cui si applicano le sanzioni quando questi sono ritenuti responsabili. Avendo questo volto bifronte, la giustizia penale è intrinsecamente pericolosa. Perché non è detto che funzioni sempre correttamente, non foss’altro per un fatto iniziale: i giudici sono uomini, e per dirla con Kant, ci sono “legni storti” che possono trovarsi tanto tra i cittadini comuni quanto tra i giudici. Bisogna garantire il più possibile il difficile equilibrio tra la funzione repressiva e la tutela delle persone indagate e imputate. Non sono l’unico a riconoscere, tra i professori e gli studiosi di diritto penale, che purtroppo nel nostro Paese negli ultimi decenni la giustizia penale abbia funzionato con un coefficiente di repressività tendenzialmente superiore al coefficiente garantisco, e si ritiene anche che la giustizia penale abbia avuto un ruolo e un peso, con forme di interventismo eccessivo nello scenario pubblico e nell’arena politica. E che ci sia stato anche un eccesso di pretesa da parte della giustizia penale di controllare la legittimità e la correttezza dell’operato dei soggetti politici e dei “colletti bianchi”. A tutto questo si è aggiunto un fenomeno deteriore che abbiamo definito non a caso “populismo penale”, perché sostenuto soprattutto dalle forze politiche di orientamento populista o sovranista. Queste forze hanno guardato alla giustizia penale come a uno strumento per colpire quei soggetti che hanno contingentemente interpretato o voluto interpretare come “i nemici della società e del popolo”. Pensate ai 5Stelle vecchia maniera, che hanno guardato soprattutto a una figura di nemico sociale rappresentata dal “corrotto”: per cui l’ex ministro Bonafede ritenne di aver fatto un capolavoro con la legge anticorruzione iperrepressiva, la Spazzacorrotti. Come se la funzione della giustizia penale fosse quella di spazzare via, di isolare e bandire dal contesto sociale. Questo investimento eccessivo sul diritto penale come strumento risolutivo per affrontare i maggiori mali della società, è un investimento illusorio, politicamente scorretto, che allontana dall’individuazione dei veri strumenti da adottare per affrontare le più importanti patologie della società. Anche perché questo investimento finisce col risolversi più nell’attribuzione di una funzione simbolico-comunicativa della giustizia penale, che non in uno strumento effettivamente efficace nella prassi. Con la Spazzacorrotti abbiamo eliminata la corruzione? Ma poi è vero che l’Italia è tra i paesi più corrotti al mondo? Per esempio, in un suo articolo su Repubblica, il magistrato Giuseppe Pignatone rileva che è difficilissmo calcolare con criteri scientifici quanta corruzione ci sia in un paese. Si ritiene che la corruzione sia così diffusa in Italia sulla base della cosiddetta percezione soggettiva, una percezione alimentata anche dal sistema mediatico che mette in particolare evidenza e drammatizza singoli casi di corruzione. Oggi nel guardare al sistema penale, non possiamo considerarlo soltanto chiuso nelle aule giudiziarie che hanno finito per assumere addirittura un ruolo secondario rispetto alla giustizia penale come è drammatizzata dai media.

Il ruolo dei media

Un giovane interessato oggi alla politica, non deve guardare alla giustizia penale solo in se stessa, ma deve guardare al nesso strettissimo tra giustizia penale e sistema mediatico. C’è una grandissima responsabilità dei media, che è diventata irresponsabilità, nel rappresentare il funzionamento della giustizia penale. C’è troppo diritto penale nello scenario pubblico anche perché è diventato tendenzialmente dominante un certo orientamento culturale dei magistrati che hanno cominciato a ravvisare nel processo penale non soltanto uno strumento di accertamento dei singoli reati, eventualmente commessi, ma che hanno sempre più ravvisato uno strumento di lotta a fenomeni sociali negativi generali, uno strumento di controllo preventivo della legalità che secondo gli schemi teorici del nostro ordinamento costituzionale spetta al governo, alla politica, alla pubblica amministrazione e alla attività di polizia. I magistrati si dovrebbero muovere in presenza di una notizia di reato. Ma cosa vuol dire? Il codice non lo specifica. E stabilire quando esiste notizia di reato dipende molto dal potere discrezionale dei singoli sostituti e delle singole procure. La riforma Cartabia prevede, per il controllo della discrezionalità dell’azione penale, linee guida generali che il parlamento deve stabilire. Si è parlato e si parla di processi, perché se quelli a cui ho accennato sono alcuni problemi di fondo della giustizia penale, negli ultimi tempi il dibattito si è incentrato sulla durata dei processi. Come se il problema della giustizia penale fosse solo quello di rendere più efficace il funzionamento della macchina giudiziaria. Questo è un problema, ma state attenti, non è vero che è il principale problema. Perché non è detto che la celerità del processo possa di per sé servire meglio all’obiettivo della giustizia. Perché ci sono vicende talmente complicate, che sfuggono alla capacità di presa da parte dei “guanti di legno” del diritto penale - si veda il processo Trattativa, processo sbagliato a parer mio che neanche si sarebbe dovuto fare - per cui gli accertamenti richiedono tempo. Ma il problema della lentezza dei processi, dipende anche dall’ipertrofia o inflazione penalistica: cioè nell’eccesso quantitativo di figure di reato nel nostro ordinamento. Una quantità che neanche noi studiosi conosciamo, ci basiamo su stime approssimative che oscillano tra 50mila, 60mila. Oltre il codice penale, esiste la fitta e oscura boscaglia della legislazione penale speciale, leggi e leggine che prevedono figure di reato talvolta sconosciute e obsolete. E alcune sono così bagatellari che scomodare il diritto penale è eccessivo e comporta uno spreco di risorse [...].