di GIAN CARLO CASELLI

Com'è noto la riforma del 1989 ha introdotto un rito tendenzialmente accusatorio, cioè un processo non più scritto (come nel sistema inquisitorio), bensì orale e basato sul contraddittorio. Ciò significa che la decisione deve essere fondata unicamente su prove acquisite davanti al giudice del dibattimento attraverso il confronto diretto delle parti in condizioni di parità, sottraendo il giudice a ogni possibile condizionamento esercitato da un’attività espletata in precedenza da altri organi. In poche parole, qualcosa di simile al metodo della cross-examination dei processi televisivi alla Law & Order. Ovviamente anche nel sistema accusatorio prima del dibattimento c’è la fase delle indagini. Ma con il nuovo codice, soppressa la figura del giudice istruttore, le indagini sono svolte soltanto dal pm, il quale, con l’ausilio della polizia giudiziaria, acquisisce non prove consolidate ma fonti di prova (degli spunti, se vogliamo) per accertare il reato e individuare il presunto responsabile. Di regola queste fonti di prova non sono destinate ad avere efficacia ai fini della sentenza e il loro contenuto deve rimanere estraneo agli elementi su cui il giudice fonda il suo convincimento. Detto in parole povere, in fase di indagini il pm raccoglie materiale grezzo che gli servirà poi come traccia per illustrare al giudice il suo punto di vista; si tratta quindi di semplici fonti (spunti) di prova, non di prove già formate. Può quindi accadere che l’indagato venga arrestato sulla base di gravi fonti di prova che in quella fase rendono probabile la sua condanna; ma, nella fase decisiva del dibattimento, quelle stesse fonti potrebbero non avere più valore sufficiente ai fini della sentenza. Nel dibattimento, infatti, le cose possono mutare anche radicalmente se qualcuno fa – come usa dire - “marcia indietro” , per esempio se i principali testimoni di accusa cambiano versione o ritrattano le dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria e al pubblico ministero. E poiché la prova si forma solo su quel che si dice al dibattimento, ecco che può verificarsi un fatto paradossale, una doppia verità. È il caso di un imputato che si ritenga raggiunto da gravi elementi di colpevolezza nella fase delle indagini (anche al punto di essere legittimamente sottoposto a custodia cautelare), che in dibattimento, altrettanto legittimamente, viene assolto per mancanza di prove (nel senso che con le regole del dibattimento non si sono formate a suo carico le prove necessarie). Non c’è dubbio che il processo accusatorio è un progresso nella civiltà giuridica. Nondimeno esso presenta problemi non da poco, soprattutto nel contrasto della criminalità organizzata, dove è più alto il rischio di “marce indietro” nella fase del dibattimento, spesso (ma non solo) a causa delle pesanti interferenze realizzate dalle associazioni criminali di appartenenza mediante violenze e intimidazioni (anche trasversali) o corruzioni .Il pericolo di questi gravi inconvenienti ha determinato - con vari decreti del 1991/92 - una serie di interventi legislativi che cercano di tener conto dell’impatto del processo accusatorio con le esigenze di lotta alla criminalità organizzata. Il sistema originariamente previsto nel nuovo codice subisce quindi una alternante evoluzione, singolarmente caratterizzata da una ripetuta contrapposizione fra il Parlamento (cui spetta di approvare le leggi) e la Corte costituzionale (cui spetta di verificarne la conformità alla Costituzione, e quindi di eventualmente annullarle se contrarie). Una contrapposizione alimentata anche da tensioni di tipo politico, collegate a differenti visioni sull’amministrazione della giustizia e sullo Stato, legate ai processi di quel periodo sia per reati di criminalità organizzata di tipo mafioso che per reati di criminalità politico- amministrativa( “mani pulite”).Si determina quindi una sorta di “ping-pong” istituzionale fra la Consulta e il Parlamento. La Corte interviene più volte sul testo del codice, ampliando progressivamente la possibilità di utilizzare le fonti di prova acquisite prima del dibattimento. Il Parlamento ribatte restringendo tale possibilità. La Corte però non si dà per vinta, e alla fine il Parlamento prende, come usa dire, il toro per le corna: impone il suo punto di vista interrompendo il “ping pong” in maniera tranchant con una legge costituzionale del 1999 (cui segue nel 2001 la legge ordinaria definita del giusto processo). In questo modo il Parlamento modifica profondamente l’intero assetto del processo penale riformato nel 1989, introducendo in particolare: il divieto, nella maggior parte dei casi, di utilizzare in dibattimento le dichiarazioni già acquisite (in particolare, nella fase delle indagini preliminari); l’introduzione, accanto al testimone e all’imputato, di una nuova figura, quella del testimone assistito, cioè dell’imputato che parla dei reati altrui (nel gergo giudiziario, “impumone”). Nell’esperienza concreta delle aule di giustizia, però, è opinione diffusa che l’ibrido “impumone” funzioni poco e male. La legge, infatti, circonda la sua figura con un complicato reticolo di garanzie, che gli consente, in molti casi, di starsene zitto anziché imporgli l’obbligo di rispondere e di sottoporsi positivamente all’esame delle parti. Quanto all’imputato, per legge ha la facoltà di non rispondere, ma se risponde può mentire impunemente. Mentre in altri Paesi per l’imputato che accetta di rispondere e poi mente sono previste gravi sanzioni (il cosiddetto oltraggio alla Corte). Inoltre, nel nostro sistema la falsa testimonianza è regolata in maniera molto blanda, quasi del tutto inefficace. Si comprende, allora, perché una delle principali critiche alle scelte del Parlamento circa la legge sul giusto processo sia di non avere sufficientemente rispettato la finalità essenziale del processo stesso e del contraddittorio: quella che alcuni studiosi sintetizzano come esigenza di avere “soggetti parlanti”, cioè un dibattimento che sia il luogo della parola e non del silenzio. Il principio del contraddittorio presuppone appunto la presenza di soggetti disposti a parlare – meglio se obbligati per legge a dire la verità. Su questa strada dovrebbero farsi ulteriori passi realizzando una tutela forte di un effettivo contraddittorio facendo del dibattimento un vero “luogo della parola”. Non mi sembra che la riforma Cartabia preveda alcunché al riguardo.

Le considerazioni svolte in questo intervento si trovano anche, ampliate e sviluppate, nel recente libro “La giustizia conviene” ( Gian Carlo Caselli e Guido Lo forte – Ed. Piemme)