E' la storia di due due vite rubate. Una, quella di Vanna Licheri, perduta per sempre, risucchiata da un buco nero. L’altra, quella di Pietro Paolo Melis, spezzata in due, inesorabilmente. Due vite che non si sono mai incrociate e che però sono legate indissolubilmente. Pietro Paolo Melis ha trascorso 18 anni, sei mesi e cinque giorni in carcere, accusato ingiustamente di aver organizzato il rapimento di Vanna Licheri, imprenditrice agricola sequestrata il 14 maggio 1995 e mai più tornata a casa. La portano via mentre si trova a mungere il bestiame di prima mattina, nell'azienda di famiglia. Accade tutto a pochi chilometri dal centro di addestramento di Abbasanta, distaccamento super moderno e super attrezzato nel quale vengono preparati gli agenti delle scorte di magistrati e politici e gli uomini delle squadriglie anti-sequestri. Occhi vigili e pronti ad ogni evenienza che però, in quel momento, sono all’oscuro del dramma che si sta consumando a pochi passi. Un dramma doppio, capace di logorare le vite di molte persone. A quei tempi Melis è un allevatore di 38 anni della provincia di Nuoro, in procinto di crearsi una famiglia. Ma il 10 dicembre 1997 i suoi progetti cambiano bruscamente e inesorabilmente direzione. Una pattuglia dei carabinieri lo aspetta sul ciglio della strada mentre fa ritorno a casa, lo ferma e gli punta il mitra contro. Pietro non sa che aspettarsi, ma è tranquillo. I carabinieri lo arrestano alle porte del suo paese, Mamoiada (Nuoro): in mano, oltre al mitra, i militari hanno un’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip di Cagliari. Lo cercano per sequestro di persona, ma questo Pietro lo immagina già, perché per la scomparsa di Licheri - che manca da casa già da due anni e mezzo - ha già ricevuto un avviso di garanzia. In quei due anni e mezzo più volte i quattro figli della donna si dicono disponibili a pagare il riscatto, ma la legge non glielo permette. I beni sono congelati, non possono muovere un dito. Devono solo sperare che la macchina della Giustizia non si ingolfi e riporti a casa la loro madre e che i suoi carcerieri ne abbiano pietà. Speranza che si rivelerà vana. Melis non ha idea di chi sia quella donna. Mai vista, mai sentita, dice ai carabinieri. E quindi li segue tranquillo, sicuro che l’innocenza sia un biglietto da visita più che valido per non finire in cella. Sbaglia. Insieme a lui in carcere ci finiscono pure Giovanni Gaddone - che poi si scoprirà essere un 'emissario' dei sequestri -, Sebastiano Gaddone, Tonino Congiu - gli ultimi due ritenuti i custodi della donna - e Salvatore Carta. Ma vengono condannate solo due persone: Pietro Paolo Melis e Giovanni Gaddone. È il 1997 quando arriva la sentenza di primo grado. Melis, che in aula spiega che la sua famiglia è stata vittima dei sequestri e, dunque, non potrebbe mai macchiarsi di tale crimine, si becca 30 anni di carcere sulla base di alcune intercettazioni telefoniche, nelle quali gli inquirenti riconoscono la sua voce: è lui, per la procura, l’uomo che discute con Gaddone dei particolari organizzativi per la prigionia dell'imprenditrice. Lui, in aula, lo dice più volte: quella voce non è la mia. Ma non serve a nulla se non può dimostrarlo. Il 13 dicembre 1999 la sentenza diventa definitiva: dovrà passare 30 anni in cella. Pietro è distrutto, piange, non sa spiegarsi cosa gli sia accaduto. Sa solo che è innocente. Prova a sopravvivere in carcere, a prendersi cura del suo corpo ma anche della sua mente, studiando e diplomandosi all'istituto artistico in carcere. Sa che rassegnarsi e limitarsi a contare i giorni è il modo sicuro per morire. Per impazzire e farsi del male, come in tanti, intorno a lui, fanno. Insieme a tre compagni detenuti vince un concorso, con un progetto sulle fontane di Spoleto. Il primo premio sono sette ore di libertà. Gli avvocati Maria Antonietta Salis e Alessandro Ricci però non vogliono rinunciare. Provano a scagionarlo, chiedendo una revisione del processo che nel 2012 viene respinta dalla Corte d’Appello di Roma. Lì gli avvocati hanno chiesto nuove analisi su quella telefonata, ma per i giudici la perizia fonica su cui si basa la condanna dell’allevatore sardo non può essere messa in discussione dalle nuove tecnologie. «L'elemento indiziario, rappresentato, secondo la perizia, dalla riferibilità alla persona del Melis della voce intercettata nella conversazione con il Gaddone - scrivono i giudici non è stato considerato, in sé e per sé, fattore decisivo per l'affermazione della responsabilità, ma è stato dal giudice ritenuto dato utilizzabile per la formazione del suo convincimento una volta che, dopo averlo associato, in un processo di intreccio e concatenamento agli altri elementi di eguale valenza è giunto a ritenere che fosse proprio Pietro Paolo Melis il mamoiadino delle intercettazioni ambientali, non senza puntualizzare che il Melis non ha in alcun modo contestato con i motivi del gravame la ricostruzione operata dal primo giudice a riguardo del ruolo avuto, nel sequestro Licheri, dal mamoiadino delle intercettazioni suddette, essendosi limitato a sostenere di non essere lui l'interlocutore del Gaddone». Insomma, non ha urlato a sufficienza la sua innocenza. Gli avvocati, però, non si arrendono: fanno ricorso in Cassazione, dove i giudici annullano la decisione presa a Roma spedendo gli atti a Perugia. Anche lì i giudici dicono di no e così tocca fare un altro ricorso in Cassazione prima di trovare un giudice a Perugia. Toccherà fare un nuovo processo, questa volta, però, con la speranza che quell’innocenza possa essere finalmente dimostrata. Il processo di revisione parte e arriva la certezza: la voce in quella registrazione, la prova chiave dell’accusa contro Melis, non è sua. Ma non si tratta solo di questo: quella persona, chiunque essa sia, non è nemmeno originaria di Mamoiada, come lo è Pietro. L’accento lo dice chiaramente: è qualcuno che viene da un’altra parte. Qualcuno che non verrà mai identificato. E il 15 luglio 2016, sono passati due anni e quattro mesi dalla riapertura del processo. La corte d’Appello di Perugia dà ragione, dopo 18 anni, a quell’uomo, che intanto ha perso tutto: Pietro Paolo Melis non ha commesso il fatto, può tornare libero. «Il mio antidoto in tutti questi anni è stato la speranza - ha raccontato dopo la scarcerazione in un’intervista a Panorama -. Sapevo di essere innocente. In carcere, prima a Spoleto e poi a Nuoro, ho avuto solo qualche permesso per far visita ai miei genitori. Mio padre è morto mentre ero dietro le sbarre, mia madre ottantacinquenne mi ha rivisto pochi giorni dopo essere uscito di prigione e non credeva ai suoi occhi. Non ho voluto un pranzo o una festa, non ho nulla da festeggiare. Mi hanno rovinato per sempre. Al momento dell’arresto avevo 38 anni, oggi 56. Avevo una compagna, volevo costruirmi una famiglia, lei ha resistito otto anni poi mi ha lasciato. Non l’ho neanche sentita dopo la mia liberazione, non so se si sia sposata. Con una sola visita a settimana puoi resistere qualche anno, poi i sentimenti si raffreddano, è inevitabile ».