La casa editrice Il Papavero ha ripubblicato “I cimiteri dei vivi” di Filippo Turati (Prefazione di Stefania Craxi, introduzione di Giuseppe Gargani). Pubblichiamo di seguito un estratto della postfazione a cura del magistrato Giuseppe Cricenti, Consigliere di Cassazione. Filippo Turati trascorse un relativamente lungo periodo in carcere. La sua indignazione per l’inefficienza e la violenza del sistema carcerario del suo tempo in gran parte deriva dalla esperienza fatta in quel luogo, ed infatti egli è il primo a denunciare che l’indifferenza verso quel sistema è basata sulla inesperienza dei fatti, "perché nessuno ne sa nulla, perché non vi è comunicazione alcuna tra il nostro mondo e quei cimiteri di vivi che sono le carceri". Così che l’insensibilità dei più, anche del se del ceto intellettuale e degli stessi rappresentanti politici, deriva dalla ignoranza di quel mondo: "provatevi a vivere là dentro e poi sappiatemi dire se tutto non vi è da riformare". Più tardi, nel 1948, sarà Calamandrei a ribadire questa ragione: “in Italia il pubblico non sa abbastanza - e anche qui molti deputati tra quelli che non hanno avuto l’onore di sperimentare la prigionia, non sanno - che cosa siano certe carceri italiane. Bisogna vederle, bisogna esserci stati, per rendersene conto”. Sia Turati, prima, che Calamandrei poi, propongono di conseguenza l’istituzione di una Commissione d’inchiesta, un modo per far luce su una realtà altrimenti ignota agli stessi rappresentanti politici. Essi ritengono che sapere di più su quel mondo può servire a cambiarlo in meglio: entrambi invitano i rispettivi ministri del tempo, a fare visita per averne migliore idea. Sembrano tempi lontani, ed in un certo senso lo sono, ma chi per l’appunto, abbia oggi una qualche idea del sistema carcerario italiano, sa che quasi nulla è cambiato da allora. Anche oggi il carcere è un ambiente del tutto ignoto agli italiani ed è questa condizione che alimenta l’atteggiamento, che sembra insuperabile, di populismo che si registra verso i problemi dei detenuti, e la istituzione carceraria nel suo complesso. Ma non è solo questo. L’analisi di Turati individua storture del sistema carcerario che, non solo permangono oggi, ma sembrano essere, perciò stesso, strutturali, e dunque costitutive del sistema in sé. Intanto, il fallimento della funzione rieducativa: "tutta la parte, invece, che rispecchia il dovere dello Stato di provvedere alla redenzione del colpevole, garantendo al tempo stesso la sicurezza pubblica contro le recidive, tutto questo è lasciato completamente da parte, è rimasto lettera morta". Poi, la solitudine dei reclusi, le poche occasioni che essi hanno di comunicare non solo con l’esterno ma con gli stessi organi di gestione del carcere, le condizioni delle strutture e dei luoghi di reclusione, la spietata violenza delle guardie. Tutte queste cose, anche se non sommate, ma singolarmente prese, testimoniano il fallimento di una istituzione in sé e per sé, e non solo in un dato momento storico. V’è allora da chiedersi, prima di ogni altra riflessione, perché il carcere, che pure ha fallito in pressoché ogni suo scopo, ancora oggi è di fatto l’unica risposta al reato che la società moderna sappia esprimere: per quale motivo, pur non riuscendo a soddisfare le finalità che gli sono proprie, l’istituzione carceraria sopravvive, e ciò nonostante, vengano destinate ingenti risorse per farlo funzionare: ai tempi di Turati, 30 milioni, quasi la metà dell’intero bilancio. I dati attuali, ricavabili dal bilancio del Dap, e dalla Ragioneria Generale, indicano che lo Stato italiano spende complessivamente una media di 3 miliardi l’anno per il sistema carcerario, complessivamente. Il risultato di questa spesa è che, sempre secondo dati del Dap, il 68,7 % dei detenuti è recidivo: rimesso in libertà, delinque nuovamente. È dunque, una spesa se non inutile, di certo inefficiente.Viene da chiedersi, allora, perché questa istituzione non solo sopravvive, ma continua ad essere la risposta quasi esclusiva ai reati. Negli ultimi anni il legislatore ha aumentato le pene, ha in particolare aumentato il massimo edittale per molti reati, ma non per esigenze di politica criminale, ossia per rispondere con il carcere ad un maggiore allarme sociale, piuttosto per esigenze pratiche, che non si sa o non si vuole affrontare direttamente: si innalzano le pene edittali per evitare la prescrizione, anziché agire sui tempi del processo o fare direttamente una riforma della prescrizione stessa; si aumentano le pene edittali per consentire l’applicazione di misure cautelari o una loro maggiore durata; pene più elevate per consentire le intercettazioni. Una prassi scriteriata che oltre che fondare politiche del diritto penale sbagliate allontana sempre di più la possibilità di fare del carcere una risposta non esclusiva al reato, ed impedisce di ammettere un numero sempre maggiore di condannati a sistemi alternativi alla detenzione. Se si considera che dalla stessa riforma del 1975, che aveva l’intenzione di sviluppare risposte alternative al carcere, per rendere la detenzione se non eccezionale, perlomeno di minore frequenza; se si considera che da quella riforma sono passati quasi cinquanta anni senza che il sistema penitenziario abbia perso invece la sua assoluta centralità e soprattutto senza che i problemi costitutivi che abbiamo visto in precedenza siano venuti meno; se si pensa a tutto ciò, si intuisce come la gestione legislativa del sistema penitenziario abbia ceduto il posto all’intervento dei giudici, e segnatamente alla Corte europea per i diritti dell’uomo: è da Strasburgo che vengono ora le indicazioni di maggiore rilievo.