«La giustizia che emerge dall’opera di Dante può essere severa e lo è in molte delle pene che sono inflitte ai dannati dell’Inferno, quasi crudele. Ma non è mai frutto di una fredda, aritmetica, rigida applicazione di regole predeterminate. Le eccezioni e gli incontri imprevedibili lungo il cammino dicono di una giustizia che non coincide con un giudizio irremovibile». Se ognuno avesse la lente di Marta Cartabia per rileggere la tradizione, allora ci apparirebbe meno sbiadito quel sentimento di «pietade» che fa della Divina Commedia l’opera più spietata, e al contempo umana, della nostra letteratura.Nell’anno dell’anniversario, dopo settecento lunghissimi anni dalla sua morte, del “Cantore di rettitudine” si è detto quasi ogni cosa. M a forse vale ancora la pena rimestare in quei versi di straordinaria crudezza per ricordarci che persino Dante, principe della morale, aveva pietà dei dannati.«Tanti autori – spiega Cartabia – hanno sottolineato che la Divina Commedia è in fondo una grande costruzione normativa. Ma c’è un’osservazione di Justin Steinberg che vorrei qui riportare: egli sottolinea che uno degli scopi di questa grandiosa composizione è la possibilità di esplorare i casi limite, le eccezioni alle ferree regole da lui immaginate». Ed ecco la prova: “I pagani sono salvati – scrive Steinberg – i dannati compatiti, i giuramenti infranti, le condanne ridefinite”. «Come spesso accade nella vita di ciascuno, è soprattutto attraverso l’esperienza della ingiustizia, o di quella che è percepita come tale, che ogni persona si accosta al grande universo della giustizia e al grande bisogno di risposte di giustizia ». È ancora Cartabia a parlare, a rammentarci – ripercorrendo la vita di Dante – come «la giustizia lo abbia lambito attraverso un’esperienza dolorosissima »: la condanna all’esilio. «Dante stesso contempla l’ipotesi che la sua condanna sia rivista – ricorda la guardasigilli – . La revisione non arriverà, ma nella Commedia la giustizia è mossa e muove. Quante suggestioni per noi, nel nostro tempo, in una giustizia capace di muovere. La giustizia in Dante non è mai fissità perché la sua origine, il suo termine ultimo è “l’amor che move il sole e l’altre stelle”». Un motivo biografico vincola il poeta al bivio eterno tra colpa e innocenza, tra condanna ed espiazione.Così come il gusto per i classici sembra indurre la ministra della Giustizia a inquadrare il suo mandato nella cornice del dubbio.La prima volta che la suggestione di Dante si affaccia nelle sue parole è il 9 dicembre 2020,quando la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa le conferisce il dottorato honoris causa in Legge. Per l’occasione, Cartabia tiene una lectio magistralis dal titolo “Per l’alto mare aperto. L’Università al tempo della grande incertezza”. «Ma misi me per l’alto mare aperto »: siamo nel XXVI Canto dell’Inferno, in compagnia di Ulisse. La futura ministra si serve di quell’immagine per ricordare agli studenti in balia della pandemia che «ci stiamo dirigendo verso una terra incognita, un mondo ancora sconosciuto, sì, ma da esplorare». La seconda volta che le sentiamo nominare Dante è in occasione delle celebrazioni per il settimo centenario dalla morte che si sono tenute l’8 settembre al palazzetto degli Anguillara “Casa di Dante”. Questa volta Cartabia legge con gli occhiali da guardasigilli per ricordare il «nesso ricorrente nell’opera di Dante tra Giustizia, Sapienza e Amore, per altro ritratte insieme all’ingresso della “città dolente”».

LA GIUSTIZIA “SOFFERTA” DA DANTE

La città dolente di Dante Alighieri è Firenze. Ma non è lì che muore da esule nel 1321. La malaria se lo porta via a Ravenna il 14 settembre di quell’anno, all’età di 56 anni. Quando inizia la sua Comedia, lo sappiamo, è nel mezzo del cammino della sua vita. Gli attribuiamo 35 anni, ché la prospettiva di vita secondo la Bibbia è di 70.Perseguitato, costretto all’esilio, il poeta realizza l’omaggio a Beatrice, la promessa annunciata negli ultimi versi della Vita Nuova: «Sì che, se piacere sarà di colui a cui tutte le cose vivono, che la mia vita duri per alquanti anni, io spero di dicer di lei quello che mai non fue detto d’alcuna».Il poeta della generazione dei poeti d’amore, il maestro delle rime volgari, vuole dire di Beatrice ciò che non fu mai detto di alcuna. Ma all’origine della Divina Commedia c’è anche un altro fattore: il trauma politico, la condanna a processo. L’ingiustizia, diremmo, e il desiderio di dimostrare la propria innocenza. Nella Firenze del 1300, sconquassata dalla rivalità tra la famiglia dei Cerchi e dei Donati, si stabilisce la potenza dei secondi, i Guelfi neri. Comincia una politica di sistematica persecuzione degli esponenti di parte bianca, ostili al Papa, che si risolve nella loro uccisione o nell’espulsione da Firenze. Dante allora si trova a Roma – trattenuto, si dice, da papa Bonifacio VIII – e da lì non farà più ritorno nella sua terra natìa: la storia lo colloca dalla parte dei Cerchi.Lo insegue, errante, l’accusa di «baratteria», usura, concussione, malversazione. Il Dante politico è travolto dalla gogna. Ché fondata o del tutto arbitraria che fosse l’accusa, si trattò certamente di un processo politico: «Se in contumacia vengono rivolte a Dante accuse di malversazione, è perché si pensa che ce ne sia materia, perché si ritiene di poterle vendere come plausibili all’opinione pubblica fiorentina», spiega lo storico Alessandro Barbero. E così, al cospetto del giudizio divino, Dante non risparmia nemmeno se stesso e sceglie di condannare i barattieri nella bolgia infernale del Ventunesimo Canto, lì dove eternamente ribolle un magma di pece nera. Ma ecco il punto: tanto è severa la sua sentenza, quanto è umana la sua comprensione per i dannati.

«SÌ CHE DI PIETADE/ IO VENNI MEN COSÌ COM’IO MORISSE...»

Il poeta aveva profuso tutto il suo genio per classificare il peccato. L’estasi non si può spiegare a parole, ci dice alla fine del Paradiso. Mentre il dolore si può provare anche attraverso la pelle degli altri. Di quei condannati che Dante non esita neanche un istante a consegnare all’eterno, all’infinita espiazione della pena. D’altronde non si può separare, neanche forzando la mano, il poeta dal tempo che visse. Dante è figlio del Medioevo. È disgustato dall’amministrazione terrena della giustizia. Non applica sconti, lo abbiamo detto, quando infligge la pena. Simbolo della sua imparzialità è il destino riservato a Guido Cavalcanti, dei suoi amici il più caro. Per non parlare del venerato maestro, Brunetto Latini, collocato all’Inferno tra i «sodomiti». Eppure a tutti i dannati Dante riserva rispetto. Ha riguardo per gli oppositori politici, gli epicurei, e tutti coloro che la sua morale non può tollerare: lo studio matto e disperato, direbbe Leopardi, lo aveva nutrito di filosofia naturale. Se Brunetto Latini gli aveva insegnato l’arte di fare politica, di farsi largo tra i decisori e i nobili di spirito e portafoglio, all’indomani della morte di Beatrice Dante trova ristoro nei «filosofanti». Tra tutti Aristotele, Tommaso D’Aquino, Boezio. Coloro che, in un estremo sforzo di sintesi, correlano lo studio della natura al modo di stare al mondo: la morale, appunto.Ma anche quando veste i panni di giudice rigoroso, Dante è sopraffatto dalla compassione. Di fronte al contrappasso che eternamente separa Paolo e Francesca, il suo corpo non regge: « Mentre che l’uno spirto questo disse/ l’altro piangea; sì che di pietade/ io venni men così com’io morisse/ E caddi come corpo morto cade ». Siamo nel Canto V, secondo cerchio dell’Inferno, dove sono puniti i lussuriosi. Più avanti, nel Ventesimo Canto, Dante incontra i maghi e gli indovini. Ognuno di loro ha il collo e il viso girati dalla parte dei “reni”, condannati a guardare all’indietro così come in vita «vollero veder troppo avante». Una tale visione del corpo umano, sfregiato e deturpato, lo turba profondamente: non riesce a tenere «gli occhi asciutti», confessa al lettore, si abbandona a un pianto di compassione. Così Virgilio – sua guida, faro della ragione – lo riprende severamente e gli dà dello sciocco: «Chi è più scellerato che colui che al giudicio divin passion comporta?».Si tratta della stessa “passione” che ritroviamo nel Canto XXVI dell’Inferno, il Canto di Ulisse.« Allor mi dolsi, e ora mi ridoglio/ quando drizzo la mente a ciò ch’io vidi/ e più lo ‘ngegno affreno ch’i non soglio/ perché non corra che virtù non guidi/ sì che, se stella bona o miglior cosa/ m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi non m’invidi ».Fin dall’inizio del passo, leggiamo nelle parole di Dante una straordinaria partecipazione al dolore di Ulisse. Un ardente desiderio spinge il poeta ad ascoltare la sua confessione, così come il re di Itaca aveva voluto ascoltare il canto delle sirene. Un motivo biografico li lega al punto da poter definire Ulisse il “doppio di Dante”: entrambi esuli, l’uno rifiuta di riconoscere le proprie colpe condannando la propria famiglia alla miseria, l’altro rinuncia ai propri affetti per sete di conoscenza. Ma se il Dante personaggio avverte ed esalta il pericolo estremo che comporta la vicenda narrata da Omero, il Dante teologo, che giudica e condanna Ulisse all’Inferno, doveva pur concordare con l’imperativo morale del conoscere e sperimentare: « Che fatti non foste... ».

LA “RIVOLUZIONE” DEL PARADISO

«Nell’Inferno più che essere punita la persona è punito l’atto, è punita la violazione in sé», scrive l’ex magistrato Gherardo Colombo in un saggio a proposito della giustizia nella Divina Commedia.Dante attribuisce alla pena una funzione preventiva. «Secondo l’idea dell’epoca, che è tradotta esattamente nell’opera di Dante – spiega Colombo – la pena è efficace quando è proporzionata alla gravità della colpa, nel senso che quanto maggiore è la colpa, tanto maggiore deve essere la pena». Siamo in piena giustizia retributiva, il contrappasso. È la legge dell’occhio per occhio «che influenza ancora tanta parte della nostra cultura e che sicuramente influenzava la cultura dell’epoca di Dante», sottolinea l’ex magistrato.Ma Dante distingue il “giusto naturale”, il diritto naturale, dal “giusto legale”, la legge. Conosce il dilemma che definisce il diritto: l’insieme di regole del viver civile coincide sempre col “giusto”? Dove nasce il diritto? La giustizia viene da Dio, risponde il poeta, e si rivolge ai regnanti: “ Diligite iustitiam”, amate la giustizia, “ Qui iudicatis terram”, voi che regnate in terra (Canto XVIII, Paradiso). La pena funziona da deterrente verso comportamenti criminali futuri, ma la prevenzione non riguarda i dannati, inchiodati all’eternità, riguarda tutti: la pena agisce come monito universale. «Per gli uomini del mondo che “mal vive” è necessario, secondo il poeta, rinnovare se stessi e ciascun altro individuo», aggiunge Colombo.Bisognava ammonire e cancellare l’errore, più che il trasgressore. « Io... li errori della gente abominava e dispregiava, ma non per infamia o vituperio delli erranti, ma delli errori, li quali biasimando credea fare dispiacere... », leggiamo nel Convivio. E così più avanti nella Divina Commedia: nel modello retributivo di Dante si apre una prospettiva di riconciliazione.«Il Purgatorio rappresenta uno spiraglio – chiosa l’ex magistrato –. Nell’Inferno, infatti, la pena è vendetta. Nel Purgatorio la pena è espiazione. La pena è in qualche misura caritatevole, perché serve ad espiare i peccati e a reintegrare la dignità che conduce in Paradiso». Ché se l’Inferno è il suo capolavoro di immaginazione, la vera rivoluzione di Dante è il Purgatorio: lì dove si semina il dubbio che la retribuzione possa non essere «l’unica via per sanzionare un comportamento deviante ».