L’ex capo della procura di Milano, Edmondo Bruti Liberati, in un commento affidato al Foglio, tira le orecchie ai pm giustizialisti. Il magistrato, ora in pensione, ha guidato la procura meneghina per cinque anni, dal 2010 al 2015, sostituito poi da Francesco Greco, al centro oggi di una bufera mediatica-giudiziaria dopo l’intervista rilasciata al Corriere della Sera, nella quale ha criticato sia Piercamillo Davigo, suo collega nel periodo di “Mani Pulite”, sia Paolo Storari. «La presunzione di innocenza trova la sua prima tutela nelle norme del processo (diritto al silenzio, onere della prova); le previsioni della Direttiva su questi aspetti non richiedono disposizioni attuative poiché il nostro ordinamento è già rispettoso di tali principi e diritti. Sulla questione della presentazione in pubblico di imputati in manette o con altri mezzi di coercizione fisica, affrontata nella Direttiva Ue, basterebbe nel nostro Paese dare attuazione alle disposizioni e alle direttive già vigenti». «Rimane aperto il problema delle gabbie presenti in molte aule di udienza; le più vecchie sono vere e proprie gabbie con sbarre metalliche, le più recenti sono in vetro, soltanto meno appariscenti. In taluni casi l'utilizzo delle gabbie si rende necessario soprattutto quando vi siano più detenuti. Ma non è infrequente che gli imputati siano posti in queste gabbie, senza che vi siano stringenti esigenze di sicurezza, ma solo perché ciò consente di utilizzare un numero più ridotto di personale di polizia penitenziaria per la scorta». «In altri casi la sistemazione logistica dell'aula è tale che per gli imputati non vi è altro posto se non quello nelle gabbie. Su questo tema non occorrono norme, ma impegno per l'adeguamento logistico delle aule di udienza e delle regole per le scorte. Nonostante le norme esistenti (ribadite negli ultimi anni da precise direttive di diversi Procuratori della Repubblica come Milano e Napoli) sono ancora frequenti i casi in cui le autorità di polizia consentono la ripresa di arresti o di persone in manette, ma occorre anche ricordare che molto spesso questo tipo di riprese è attuato a dispetto delle precauzioni adottate e che comunque la responsabilità della diffusione sui media è degli operatori della comunicazione». «La presunzione di innocenza è un dato acquisito a livello europeo e nel nostro sistema processuale, ma molto delicato è il tema delle misure da adottare per assicurarne la tutela, individuando un punto di equilibrio rispetto ad altri valori come, da un lato, il dovere di comunicare e di rendere conto accountability da parte del sistema di giustizia e, dall'altro, il diritto di informazione, di cronaca e di critica La Direttiva Ue, nella premessa si limita alla sbrigativa formuletta "fatto salvo il diritto nazionale a tutela della libertà di stampa e dei media" e all'art. 4 adotta formulazioni molto restrittive, limitando la possibilità da parte delle autorità pubbliche di "divulgare informazioni sui procedimenti penali", ai soli casi in cui "ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all'indagine penale o per l'interesse pubblico». «La questione più delicata è la disciplina del divieto di "riferimenti in pubblico alla colpevolezza". Si direbbe una mission impossible poiché sul punto le buone intenzioni della Direttiva scontano una impostazione burocratica e unilaterale. Forse si tratta di questione che sarebbe stato più opportuno riservare agli strumenti di soft law (come Raccomandazioni e Pareri), più idonei a fornire orientamenti nell'individuazione del delicato equilibrio tra i diversi valori in gioco, piuttosto che l'hard law della Direttiva. La presunzione di innocenza, lo si è già sottolineato, trova la sua essenziale tutela nelle norme del processo sulle garanzie del diritto di difesa. La pretesa di intervenire sul terreno della comunicazione con normative apparentemente stringenti si rivela insieme problematica e potenzialmente lesiva degli altrettanto rilevanti valori dell'informazione, della cronaca e della critica». «Per quanto riguarda i magistrati non saranno mai abbastanza sottolineati i danni che provocano alla complessiva credibilità della giustizia le esternazioni lesive del principio di innocenza e in contrasto con i criteri dell'equilibrio e della misura di alcuni magistrati, soprattutto pubblici ministeri. La questione di fondo rimane quella efficacemente indicata da Giovanni Melillo, un magistrato particolarmente impegnato sul tema: "Si tratta allora di trovare la formula quasi alchemica, in grado di assicurare il perfetto equilibrio fra efficacia e correttezza della informazione, ciò che per un giurista, e a maggior ragione per un magistrato come tale soggetto solo alla legge, vuol dire una comunicazione efficace nei limiti nei quali può rendersi rispettando le regole, non solo prettamente processuali, ma anche della cultura e della deontologia del processo penale di una società liberale" Il principio di innocenza deve essere affrontato con attenzione a livello di informazione ad evitare l'ipocrisia che lo riduca a mero formalismo a fronte di "casi risolti", ove la colpevolezza si presenti come dato storicamente acquisito, che il processo dovrà solo "attestare" e verterà essenzialmente sulla individuazione della pena da infliggere o, in taluni casi, sulla capacità di intendere e di volere». «Anche nei confronti del più feroce degli assassini, colto in flagranza o comunque apparentemente raggiunto da inoppugnabili elementi di accusa, il richiamo al principio della presunzione di innocenza fino alla sentenza irrevocabile non è ipocrita formalismo, perché rimanda alle regole del "giusto processo" e alle garanzie di difesa, contribuisce a formare l'acquisizione della distinzione tra Verità storica e verità processuale». «La verità processuale, con la "v" minuscola, è quella che si costruisce attraverso la verifica della impostazione accusatoria davanti al giudice, con pronunzie che possono essere riviste nel sistema delle impugnazioni; è quella che deve ignorare prove illegittimamente acquisite; è quella che la cui "definitività" è persino revocabile, attraverso il procedimento di revisione, quando emergano nuove prove a favore del condannato. Al contrario la "definitività" non può essere scalfita ove successivamente emergano prove a carico dell'assolto, in base al principio che in tutti gli ordinamenti continua ad essere definito con la formula latina del "ne bis in idem", il quale preclude in modo assoluto la possibilità di sottoporre nuovamente a processo per lo stesso fatto chi è stato assolto». «Anche l'esecuzione delle pene detentive nei confronti dei condannati definitivi la nostra Costituzione vuole sia attuata nel rispetto della persona e miri al reinserimento nella società. Questo profilo non è sfuggito alle Linee Guida 2018 del Consiglio Superiore della Magistratura del 2018».