«Erano convinti di doversi assumere la responsabilità del potere».

Di dover cambiare l’Italia attraverso le indagini?

«No, anche di assumersi direttamente la responsabilità del potere politico». Tiziana Parenti, da tempo ormai avvocato del Foro di Genova e dunque lontana non solo dalla toga di pm ma anche dallo scranno parlamentare, è una figura atipica nella storia a di Mani pulite. Corpo estraneo rispetto al resto del Pool, presto convintasi a lasciare la Procura milanese e la magistratura e a schierarsi in politica con Forza Italia, ha già raccontato altre volte delle iperboli che, a suo giudizio, hanno pesato sul percorso degli ex colleghi. Stavolta lo fa a poche ore dal nuovo scontro fra Piercamillo Davigo e Francesco Greco.

Non finisce nel migliore dei modi, avvocato Parenti, l’epopea di Mani pulite e della mitica Procura di Milano anni Novanta.

Distinguiamo però le due cose. Francesco Greco non ha fatto parte del Pool all’epoca di Tangentopoli, Davigo sì. Ma è vero che le nuove tensioni mostrano quanto sia pericoloso per la magistratura eccedere nel protagonismo. Finisce male perché a un certo punto alcuni magistrati, inclusi i miei ex colleghi di Milano, hanno smesso di intendere la loro funzione in termini di esclusiva ricerca della giustizia rispetto al caso concreto.

In che senso?

Hanno ritenuto di doversi assumere una responsabilità più grande, di doversi fare carico di un progetto di cambiamento del Paese in cui appunto sarebbero stati protagonisti.

Be’, in effetti con Mani pulite sono diventati fatalmente protagonisti: hanno disarcionato la politica.

Sì ma, non saprei dire se per un inappropriato senso di responsabilità, in quella parte della magistratura, Procura di Milano inclusa, si era radicata la convinzione che alcuni esponenti del mondo togato potessero anche impegnarsi direttamente in politica, pur senza cercare collocazione in uno dei pochi partiti sopravvissuti. E certo il clima di Mani pulite, nel 93, ha esasperato questa convinzione.

Nel Pool di Milano non si escludeva un impegno politico diretto di qualche componente?

Io non partecipavo ad alcune delle riunioni più delicate, innanzitutto a quelle in cui si discuteva dei filoni investigativi dei quali non avevo diretta competenza, quelli sui partiti di governo. Io ero la sola a lavorare sul Pds. Ma posso dire, ad esempio, che c’era nei componenti storici del Pool la consapevolezza di un quadro politico successivo alle inchieste in cui la sinistra politica sarebbe rimasta sola o quasi.

Non eravate mica tutti di sinistra?

Assolutamente no, ma non era una questione ideologica. Certamente le idee politiche personali di ciascuno, nella Procura di Milano, erano assai diverse. Però, in un’ottica in cui la magistratura avrebbe avuto un proprio peso politico, il Pds, la sinistra, rappresentavano certamente l’interlocutore ritenuto, dalle toghe, più adeguato al realizzarsi dell’obiettivo.

Le sue sono affermazioni impegnative.

Ma come sa non è la prima volta che ne parlo. Il progetto di una magistratura più influente sul quadro democratico generale inizia, se è per questo, una trentina d’anni prima di Mani pulite. Con la lotta al terrorismo, le leggi speciali, alcune garanzie ottenute dall’ordine giudiziario, non esclusi i 45 giorni di ferie e l’incremento della retribuzione. Mani pulite è semplicemente il momento in cui la magistratura comprende che il principale ostacolo al compiersi di quel progetto generale, vale a dire i partiti della prima Repubblica, era stato eliminato, e che dunque il campo era più libero.

Siamo partiti da quel clima, ci troviamo con uno scontro molto duro fra Greco e Davigo: come si spiega?

Non si può fare a meno di recuperare la storia. Primo, Silvio Berlusconi era un altro interlocutore che la Procura di Milano riteneva prezioso, durante la fase originaria dell’inchiesta. Con le sue tv, ricorderete i report di Andrea Pamparana, diede grande risonanza al lavoro del Pool, e al pari del Pds era considerato, seppur per motivi diversi, una controparte appunto utile.

Cosa si diceva di Berlusconi a Palazzo di giustizia?

A me parve di capire che non vi fosse alcuna intenzione di coinvolgerlo nelle indagini.

E poi che è successo?

Che Berlusconi ha sparigliato il tavolo: inventa Forza Italia, vince le elezioni e occupa il centro della scena, il vertice della politica.

Cos’altro avrebbe dovuto fare?

Io mi candidai con Forza Italia. Gli dissi: “Presidente, temo che una sua nomina a presidente del Consiglio possa provocare ricadute sfavorevoli sul piano giudiziario”. Mi rispose: “Ho vinto le elezioni, perché non dovrei diventare capo del governo?”. Come dargli torto. Ma la mia fu una facile previsione.

Berlusconi quindi potrebbe essere, lei dice, la variabile che ha alterato la prospettiva immaginata dalla magistratura.

Lo fu. Berlusconi è l’antitesi di un processo storico. La sintesi successiva ha visto la magistratura trasformarsi da forza di potere, con prospettive anche propriamente politiche, a potere solo burocratico, che è stato comunque forte ma ha finito per sclerotizzare la giustizia. I riti del potere giudiziario, la difesa delle prerogative, sono la prima vera causa delle lentezze.

Lei operò ha lasciato anche la politica, nel 2001: perché?

Fu insopportabile la delusione per la Bicamerale. Ci avevo lavorato. Credevo nella possibilità di poter inserire, fra le riforme condivise, anche quella della giustizia. Berlusconi, bombardato dalle indagini, decise di lasciare il tavolo. Compresi le sue motivazioni, ma per me fu un colpo troppo pesante.

Ha letto però l’intervento di Berlusconi a proposito di giustizia uscito domenica sul “Giornale”? Le è piaciuto?

Molto, parla di princìpi per i quali avrei voluto battermi, dalla separazione delle carriere all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione e, soprattutto, ai limiti nell’adozione delle misure cautelari.

Ma se il Cav le chiedesse di tornare in politica per dedicarsi di nuovo alla giustizia?

Mi farebbe piacere impegnarmi di nuovo, credo nei princìpi costituzionali, nella loro affermazione. Mi impegnerei volentieri, se si tratta di battersi per la giustizia sono sempre pronta ad accettare la chiamata.

Senta, ma in fondo può essere anche comprensibile che il caos generato da Mani pulite inducesse in alcuni magistrati la convinzione di dover assumere su di sé il peso di un potere devastato?

Può darsi che la devastazione politica prodotta da quell’inchiesta abbia in effetti suscitato in una parte della magistratura la convinzione che, spianato il deserto, occuparsi del potere diventava doveroso, necessario. Non lo so, ripeto: a certe riunioni io non partecipavo, ero esclusa. Ma l’aria che si respirava nella magistratura italiana, nel 1993, era quella. D’altronde, un conto è cercare la verità su un fatto specifico, altro è assumere iniziative che rovesciano il Paese come un calzino.

Era esagerato?

Direi di sì, e probabilmente la durezza di quell’indagine fu incoraggiata anche da potenze straniere, che non avevano più bisogno della classe dirigente grazie alla quale, per l’intero dopoguerra, l’Italia era rimasta un’avanguardia contro l’avanzare del comunismo.

Lei è stata nel Pool di Mani pulite, seppur per un tempo limitato. È una testimone diretta.

Appunto. Pochi meglio di me possono parlare di quel periodo. Di cosa circolasse nella magistratura. C’era un’idea di potere da assumere, in modo anche diretto. Poi Berlusconi si è frapposto e quell’idea è svanita. Ma a quale prezzo, almeno per Berlusconi, lo abbiamo visto.

A cosa si riferisce?

Berlusconi è stato al centro di una vicenda giudiziaria che ha assunto anche tratti persecutori. Ripeto: prima del 1994 non c’era un magistrato che avesse detto “Silvio Berlusconi finirà sotto indagine”. Poi Forza Italia vinse le elezioni e nulla fu più come prima.