«Sono fermamente convinta che Lise Bataille non sarebbe oggi sul banco degli imputati se non avesse dimostrato quella libertà morale, per quanto banale, su cui l’accusa ha tanto insistito». Per raccontare la storia di Lise Bataille bisogna partire dalla fine, da quell’arringa difensiva che precede di un passo il resto della sua vita, destinato alla libertà oppure a una cella. Lise è la protagonista di un noir francese di straordinaria potenza, “La ragazza con il braccialetto”, regia di Stéphane Demoustier (Satine Film). Ma Lise è sopra ogni cosa la “protagonista del sospetto”, in un film consacrato al dubbio. E come ogni adolescente, riassume su di sé il mistero di una stagione della vita imperscrutabile. Soprattutto se quella vita è vivisezionata in un’aula di tribunale: ché non importa quanto la vicenda giudiziaria narrata sia frutto della finzione, la carne sulla quale è cucita è talmente viva da sembrare reale. Lise ha 18 anni, ma appena 16 quando la polizia irrompe nella sua giovinezza, turbando per sempre la sua quiete familiare: sta trascorrendo il pomeriggio al mare con i genitori e il fratellino a Bernerrie-en Retz, località balneare nella regione della Loira, quando gli agenti la portano via senza fornire troppe spiegazioni. Secondo l’accusa, Lise ha ucciso la sua migliore amica, Flora, all’indomani di una festa. Il delitto è efferato: sette coltellate inferte su tutto il corpo, il cadavere irriconoscibile abbandonato sul letto della sua cameretta. Non si è trattato di un impeto, sostiene l’accusa, c’è stata premeditazione. Dopo sei mesi di custodia cautelare, il giudice concede a Lise gli arresti domiciliari, con l’obbligo di portare alla caviglia un braccialetto elettronico. Due anni dopo l’arresto arriva il processo. «Se andrai in prigione potrò avere la tua stanza?», chiede il fratellino Jules. «Je m’en fous», non m’importa, replica Lise poggiando sulla parete il piede al quale è legato, come un terribile laccio, il braccialetto. La scena segna l’inizio del dubbio, del sospetto negli spettatori e nei personaggi del film, che la freddezza e l’indifferenza di Lise siano prova inequivocabile di colpevolezza. E al contempo, quel braccialetto che per la prima volta compare sullo schermo, definisce il perimetro entro il quale la sua adolescenza sembra destinata a essere rinchiusa, violata. Bruno e Céline, i genitori di Lise, si stringono intorno alla figlia credendo nella sua proclamata innocenza. Cercano, come possono, di proteggere l’intera famiglia dalla tragedia che ha travolto la loro esistenza. Ma l’Aula, le prime udienze, i testi d’accusa, li costringono alla sfida più dura: persino la loro tenace convinzione vacilla quando il processo li mette davanti ai fatti e lascia emergere dettagli intimi della vita di Lise, per loro inimmaginabili fino ad allora. Così il film, un thriller giudiziario da guardare tutto d’un fiato, diventa anche il buco della serratura dal quale spiare un’intera generazione le cui abitudini sessuali destano sconcerto e sdegno in chi l’ha preceduta. Dietro il delitto sembra nascondersi infatti un affare gravissimo per chi giudica, quasi irrilevante per i ragazzi che l’hanno vissuto. Mentre dietro la macchina da presa si nasconde il desiderio di riacciuffare una giovinezza perduta e lontanissima. E di indagare, restituendola allo spettatore, una macchina giudiziaria complessa, quasi “teatrale”. Presentato con successo al Festival di Locarno, “La ragazza con il braccialetto” offre un affresco concreto e coerente della giustizia attraverso le fasi del dibattimento. «Il fatto di girare in un vero tribunale (il Tribunale di Nantes, ndr) ha necessariamente influito sull’esperienza delle riprese, soprattutto per gli attori. Il principio di realtà non è lo stesso. Le comparse in tribunale non avevano letto la sceneggiatura e quindi scoprivano il processo mentre si svolgeva. Il pubblico era diviso in merito alla colpevolezza di Lise. Alcuni hanno cambiato idea in corso d’opera, è stato divertente. È un film sull’interpretazione dei fatti, sul dubbio», spiega il regista. Quel dubbio che si impone con forza proprio nelle parole della difesa, quando l’avvocata di Lise si rivolge alla Corte. «Cosa sappiamo noi degli adolescenti di 16, 17, 18 anni? Cosa sappiamo dei loro codici? (...) La Corte d’Assise è la più nobile ed esigente delle giurisdizioni ma non deve cadere nel giudizio morale. Se voi condannate Lise Bataille, avrete giudicato, ma non avrete reso giustizia. (...) Pronunciando l’assoluzione, non compirete soltanto un atto di diritto, ma un atto di principio (...) il principio stesso della giustizia».