L’innocenza di Giuseppe Gulotta, la sua vita derubata, martoriata, torturata, vale 6 milioni e mezzo di euro. È questa la cifra stabilita dallo Stato, che ha dovuto ripagare l’errore abnorme di avergli fatto trascorrere 22 anni in carcere senza motivo. Quaranta anni dopo essere finito in manette con un’accusa pesantissima, ad aprile 2016, la Corte d’Appello di Reggio Calabria ha stabilito quanto costa una vita distrutta, l’errore consumato sulla pelle di un uomo e su quella della sua famiglia, condannando il ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento di un maxi risarcimento.

Gulotta al Dubbio

«Nessuna cifra al mondo potrebbe risarcire quanto ho subito - raccontava dopo la lettura della sentenza al Dubbio -. Sei milioni e mezzo sono tanti e di certo adesso, dopo una vita di stenti, potrò far fronte alle necessità familiari. Ma dopo 40 anni di vita rubata, possono bastare?». Non basta. Ogni anno di quella vita, per lo Stato, vale 163mila euro. Poco se si pensa al prezzo pagato inve eda Gulotta in quegli anni: la sua vita, la sua libertà. La vita di Gulotta è stata presa e gettata via quando aveva solo 18 anni. Stravolta, divorata, umiliata. Era un giovane muratore quando, di notte, si è ritrovato ammanettato, legato con le caviglie ad una sedia, picchiato e umiliato fino a confessare un reato che non aveva commesso e del quale non sapeva nulla.

I due delitti

Per 22 lunghissimi anni, quel 27 gennaio del 1976 è stato lui a trucidare il 19enne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta, della caserma di “Alkamar”, in provincia di Trapani. Dopo settimane di rastrellamenti, il colonnello Giuseppe Russo e i suoi uomini ammanettarono quattro ragazzi. Furono ore di pestaggi, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche ai testicoli, acqua e sale in gola, fino ad una confessione urlata per ottenere la salvezza. Iniziarono così gli anni di calvario di Gulotta, che ha ottenuto la revisione del processo dopo la rivelazione di un ex carabiniere, Renato Olino, sui metodi usati per estorcere quelle confessioni. Fu poi un pentito, Vincenzo Calcara, a parlare di un ruolo della mafia nella strage, collegandola all’organizzazione “Gladio”, la struttura militare segreta con base nel trapanese: i militari potrebbero essere stati uccisi per avere fermato un furgone carico di armi destinato a loro.

La fine dell'incubo per Gulotta

L’assoluzione di Gulotta arriva il 13 febbraio 2012, 36 anni esatti dopo il suo arresto. I periti della corte d’appello di Reggio Calabria, che si sono dovuti cimentare con il peso specifico di una vita distrutta, hanno dichiarato che Gulotta ha subito «un’espropriazione esistenziale, un danno totalmente incalcolabile». Per sfuggire alla pazzia, l’allora 18enne si creò una dimensione tutta sua, in cui vivere come poteva. «Mi sono chiuso in me stesso, ho evitato ogni rapporto. Mi sono isolato per salvaguardarmi. Non potevo capire chi ci fosse dietro questa storia, ho subito tutto senza sapere né come né perché. So che è stato fatto il mio nome, mi hanno fatto confessare e anche se ho ritrattato subito i giudici non mi hanno creduto. Non lo auguro a nessuno – ha raccontato poco prima della sentenza -. Lo Stato, per errore, ha tenuto la mia vita in sospeso per 40 anni. Di mio non ho potuto creare nulla. Ora questo risarcimento serve a ridarmi la dignità, una situazione economia migliore di quella che ho adesso. Spero in un futuro migliore. Ma il mio passato è andato perso, i miei 18 anni non ci saranno più». A salvarlo dalla follia è stata la sua famiglia, «che mi è rimasta sempre vicina». E che ha creduto alla verità, urlata per decenni ma sempre etichettata come bugia.

Messaggio di speranza

«Ora respiro l’aria a pieni polmoni. Bisogna andare avanti e scrollarsi di dosso quel che è stato – ha spiegato -. Malgrado tutto, credo nello Stato e nella giustizia. È vero che ci sono stati magistrati che mi hanno condannato, che non hanno controllato. Ma ci sono anche quelli che mi hanno assolto. Alla fine, la verità viene sempre a galla». Di questa storia, la storia della sua vita, Gulotta ne ha fatto un libro, dal titolo “Alkamar”, scritto a quattro mani con Nicola Biondo. «Voglio che sia un messaggio di speranza per chi ha vissuto la mia stessa esperienza». Ma se Giuseppe Gulotta ha potuto raccontare la sua storia, per Giovanni Mandalà le cose sono andate diversamente. Anche lui è stato riabilitato dall’ingiusta accusa di aver ucciso due carabinieri. Ma per Giovanni la giustizia è arrivata dopo la sua morte. Così come il risarcimento, ottenuto dai suoi eredi 18 anni dopo la sua scomparsa.Giovanni è morto nel novembre del ’98, dopo aver scontato 16 anni di galera.

La sentenza risarcitoria

Nel 2016, la Corte d’Appello di Catania ha sentenziato il dovere dello Stato di ripagare quella sofferenza con 6 milioni e 400mila euro. Così come Giovanni, non c’entrava nulla Giuseppe Vesco, che accusò tutti gli altri, per poi ritrattare ed essere trovato impiccato in cella. Né Vincenzo Ferrantelli né Gaetano Santangelo, fuggiti in Brasile per sottrarsi a una mostruosa ingiustizia. Anche Mandalà ha sempre urlato la propria innocenza, ma è morto nella disperazione di una condanna all’ergastolo, divorato da un cancro che è stato più veloce della giustizia.