Oggi il ministro degli Esteri e quello della Difesa riferiscono di fronte alle commissioni parlamentari sulla crisi afghana. È il primo coinvolgimento del Parlamento dalla caduta di Kabul e, complice l'agosto, si svolge in una sede ben più riparata dell'Aula, dove il governo dovrebbe invece riferire la settimana prossima. Il vero confronto con il Parlamento sarà quello e il rinvio agostano è per Draghi, Di Maio e Guerini provvidenziale. La crisi afghana, già tutt'altro che secondaria in sé, è uno di quegli eventi storici che possono mettere in moto dinamiche che vanno molto oltre la portata del fatto in sé e sono proprio quelle conseguenze, in parte già dispiegatesi che costituiscono la vera difficoltà per il governo italiano, come per tutte le cancellerie europee.

La vittoria dei talebani chiama in causa entrambi i pilastri che Draghi stesso aveva definito le stelle polari del suo governo: atlantismo ed europeismo. A fronte di una presidenza americana che non solo abdica al ruolo di guida dell'atlantismo ma imbocca una strada tutta americana che non differisce molto da quella dell' “America First” di Donald Trump, a parte il fatto che difficilmente Trump avrebbe potuto gestire la fine dell'avventura afghana peggio di come ha fatto il suo successore, la resurrezione dell'atlantismo dopo la parentesi Trump appare una chimera. Sarà indicativa la posizione del ministro Di Maio, peraltro già in larga misura anticipata domenica. Sin qui, nei panni del responsabile della politica estera dell'esecutivo Draghi, il pentastellato era rimasto molto in ombra e non era affatto sorprendente. Di Maio era riuscito a conservare la Farnesina nel passaggio dal Conte 2 al governo Draghi ma senza uscire indenne dal cambio della guardia a palazzo Chigi. La politica di apertura soprattutto alla Cina presa di mira, in nome del rinato atlantismo, dalla Casa Bianca portava la sua firma.

Di Maio si era adeguato e riallineato ma senza recuperare la presa sulla politica estera, restando anzi una specie di “sorvegliato speciale”. La caduta di Kabul e la scomposta reazione americana hanno cambiato tutto. Proprio la politica del giovanissimo ministro, già bocciata da Biden e da Draghi si è rivelata la più realistica e adeguata ai tempi. Il primo a prenderne atto, con il pragmatismo che lo distingue, è stato proprio Draghi. È stato il primo ad avanzare la proposta di affidare al G20 e non al solo G7 la gestione della crisi afghana, pur sapendo che le frizioni con Washington sarebbero state inevitabili. In apparenza dunque si direbbe che Di Maio si è accodato al premier ma in realtà è proprio la linea del ministro degli Esteri del Conte 2 a uscire confermata e anzi quasi imposta dai fatti. Infatti Di Maio non ha perso tempo nel rivendicarla domenica scorsa, partendo sì dalla crisi afghana ma per affermare l'esigenza complessiva di un «multilaterialismo sotto egida Onu».

Il secondo bastione di Draghi, l'europeismo, vacilla sotto i colpi della solita divisione sull'accoglienza per i profughi. Non è certo la prima volta. Nulla, almeno dai tempi del disastro greco, ha messo negli ultimi anni in luce la fragilità dell'Unione e la mina rappresentata dal prevalere degli egoismi nazionali più dell'immigrazione. Stavolta il caso non è diverso ma si presenta in forma estrema per diversi motivi. Prima di tutto perché in questo caso negare la definizione di rifugiati politici è impossibile così come l'appigliarsi al proverbiale “Aiutiamoli a casa loro”. Poi perché pur se con responsabilità diverse da quelle americane molti Paesi europei hanno preso parte alla fallimentare missione. Infine perché se è vero che le divisioni dell'Unione in materia non sono cosa recente è anche vero che la loro ricomparsa senza variazioni dopo la cesura Covid acquista un senso diverso e smentisce o almeno incrina la speranza in una Ue profondamente e complessivamente cambiata e cresciuta.

I segnali però non autorizzano ottimismo. Il premier sloveno Jansa ha già detto che non ci saranno corridoi umanitari, anche se l'Unione non si è ancora pronunciata in merito. Il cancelliere austriaco Kurz assicura che il suo Paese non accoglierà neppure un profugo afghano e a complicare le cose ci si mettono le difficoltà interne dei Paesi guida. In Germania, a un mese dalle elezioni, l'Spd ha raggiunto la Cdu al governo da 16 anni. In Francia Macron deve combattere con una popolarità a picco. In Italia la maggioranza deve fare i conti con la presenza al suo interno della Lega, e proprio ieri Draghi ha incontrato un Salvini che spara a zero sulla ministra degli Interni proprio per cercare di disinnescare la mina. Non a caso su questo spinosissimo fronte Di Maio, per ora, ha evitato di dire anche mezza parola.