«Col tempo mi hanno visto consumarmi poco a poco, ho perso i chili, ho perso i denti, somiglio a un topo ho rosicchiato tutti gli attimi di vita regalati e ho coltivato i miei dolcissimi progetti campati… In aria… nell’aria», dice un brano di Daniele Silvestri. La canzone è agghiacciante, drammatica, di forte impatto emotivo. L’elemento più sconcertante è che il protagonista, in prima persona, è un morto. Si tratta di un ergastolano che alla fine era riuscito ad evadere, ma “in orizzontale”. «Dopo trent’anni carcerato all’Asinara, che vuoi che siano poche ore in una bara».

La struggente storia cantata da Silvestri è ambientata, appunto, nell’ex carcere dell’Asinara, un’isoletta del mar Mediterraneo, vicina alla punta della Sardegna. Oggi è un luogo incontaminato dove la natura trova il suo spazio, finalmente libera dalle 11 diramazioni penitenziarie. Pochi sanno l’origine del nome. Il pensiero va subito agli asini, che pur ci sono, ma in realtà tutto nasce dalla leggenda che Ercole afferrò l’estrema propaggine settentrionale della Sardegna e la staccò dalla penisola della Nurra.

E la strinse così forte nel pugno da assottigliarne la parte centrale, lasciandole impresse tre profonde insenature dove le possenti dita l’avevano strangolata. Herculis Insula, la chiamarono perciò i romani, e successivamente Sinuaria, per la sinuosità delle sue coste. Da lì, a forza della graduale storpiatura del nome romano, si è arrivati appunto a chiamarla “Asinara”. L’isola fu prima adibita a luogo di quarantena per equipaggi di navi sospette di epidemie a bordo, con annesso lazzaretto, poi nel 1915 divenne campo di prigionia per decine di migliaia di soldati austroungarici, e poi colonia penale agricola. Tra il 1937 e il 1939 vennero trasferiti qui centinaia di prigionieri etiopi. Dal dopoguerra, l’Asinara diventò a tutti gli effetti un’isola- carcere, famigerato suo malgrado negli anni 70 come “speciale” per i fondatori delle Brigate Rosse. Poi, con la sanguinosa rivolta del 2 ottobre 1977 per protestare contro le sistematiche torture, il carcere venne temporaneamente dismesso negli anni 80 per poi riaprire dopo le stragi mafiose ai detenuti in regime di 41 bis.

Ma le torture si inasprirono, tanto da ricevere una condanna anche dagli organismi internazionali. Fu lì che venne portato Totò Riina dopo il suo arresto. Precisamente gli venne assegnata la cella di Cala d’Oliva, uno degli undici penitenziari dell’isola. Era soprannominata “la discoteca”, ma non perché si ballava. La cella, senza finestre, era perennemente illuminata dalle lampade che il capo dei capi non poteva spegnere. In poco tempo Totò Riina si rese conto di essere finito in un luogo in cui sarebbe stato davvero isolato e sorvegliato 24 ore su 24.

Senza un attimo di intimità, neanche all’interno del bagno. E con la luce sempre accesa, anche di notte. Vi rimase per 4 anni. L’Asinara però riservava l’identico trattamento nei confronti di tutti gli altri detenuti. C’è la testimonianza dell’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci che vi trascorse lunghi anni al 41 bis. «Spesso le guardie arrivavano ubriache davanti alla mia cella ad insultarmi. Mi minacciavano e mi gridavano: “Figlio di puttana.” “Mafioso di mer- da”. “Alla prossima conta entriamo in cella e t’impicchiamo”. Mi trattavano come una bestia. Avevo disimparato a parlare e a pensare. Mi sentivo l’uomo più solo di tutta l’umanità», narra Musumeci.

L’isola che ospitò anche Falcone e Borsellino prima del maxi processo (dovettero pagare anche il conto su richiesta dell’allora capo del Dap Nicolò Amato) è passata alla storia come l’Alcatraz italiana. E come ogni storia che si rispetti, ha conosciuto anche lei il suo Papillon.

Si chiama Matteo Boe e fu l’unico uomo che riuscì ad evadere da quella fortezza che fino ad allora risultava invulnerabile. Boe è un personaggio da romanzo. È stato un bandito sardo, specificatamente di Lula, un paesino arroccato sui monti del nuorese. Divenne quasi una leggenda, tanto che il suo nome venne associato a una vita non solo di rapimenti, ma anche di attivismo politico visto che combatteva per l’indipendentismo sardo. Infatti, Boe, non riconosce alcuna autorità politica ed etica dello Stato italiano.

Durante la detenzione, d’altronde, aveva tradotto in lingua sarda “Dio e lo Stato” di Bakunin e fatto poi stampare da un anarchico sardo. Fu condannato a sedici anni di carcere nel 1983, in seguito al rapimento di una giovanissima toscana, Sara Niccoli. Secondo le indagini ne fu poi il carceriere, quel “Carlos” che – come raccontò la stessa Niccoli – ne rese meno dura la detenzione, denotando perfino una cultura non indifferente nell’offrirle letture di pregio, come “L’idiota” di Dostoevskij e i libri di Franz Kafka. Sara morirà all’età di 30 anni a causa di una malattia autoimmune.

Boe fu arrestato e recluso all’Asinara. La permanenza doveva stargli ovviamente stretta, e così decise di evadere dalla fortezza con Salvatore Duras, in carcere per furto. Studiano un piano a tavolino che poi risulterà perfetto. Dopo aver tramortito un’agente mentre svolgevano un lavoro esterno, i due riescono a raggiungere la costa dove una donna – la moglie di Boe – li aspetta nascosta a bordo di un gommone. La donna, Laura Manfredi, emiliana, aveva conosciuto Boe alla facoltà di Agraria all’università di Bologna e lui era un suo compagno di corso. Un amore immenso, che la spinse ad aiutarlo ad evadere. Duras fu trovato poco tempo dopo. Boe, invece, riuscì a restare latitante per sei anni. Alla fase della latitanza risalgono tutta una serie di altri rapimenti, come quello dell’imprenditore romano Giulio De Angelis, o quello eclatante del piccolo Farouk Kassam, nel 1992, cui fu brutalmente mozzato un orecchio. Il bambino fu lasciato libero dopo 177 giorni di prigionia, nei quali mangiò poco e non si lavò, tanto che i vestiti non gli si staccavano di dosso, come sostengono le cronache dell’epoca.

Nello stesso anno Boe fu arrestato in Corsica, dove si trovava per alcuni giorni di vacanza con la moglie e i due figli, e quindi estradato nel 1995, con una condanna – confermata nel ’ 96 – a 25 anni di detenzione. Nel 2003 la tragedia. Una scarica di pallettoni rivolta al balcone della sua casa di Lula uccise Luisa, la figlia quattordicenne, forse scambiata dagli esecutori per la moglie Laura, politicamente molto attiva in paese nella lotta all’istituzione di una normalità amministrativa. «In tutti questi anni disse Matteo Boe dal carcere in una delle rare interviste rilasciate- ho visto mia figlia soltanto attraverso un vetro. Le nostre mani ogni volta erano divise da una parete. Assurdo, me l’hanno uccisa senza darmi la possibilità di abbracciarla».

Questa vicenda dolorosa ebbe strascichi giudiziari: Laura accusò l’allora maresciallo dei carabinieri di non aver indagato a sufficienza e andò sotto processo per calunnia, uscendone assolta. Ancora oggi l’uccisione della ragazzina è senza colpevoli. Boe ha finito di scontare la sua pena nel 2017 ed è un uomo libero. Ora ha 61 anni e sta studiando per diventare guida ambientale escursionistica. I detenuti che hanno cercato di fuggire dall’Asinara sono stati tanti. La vicinanza dell’isola alla punta della Sardegna dava l’impressione che fosse facile, una volta riusciti ad eludere le guardie costiere, scappare a nuoto. Invece in tanti sono annegati, recuperati giorni dopo la fuga. È stato trovato morto anche un detenuto che cercava di raggiungere la Sardegna con una barca a remi. Dopo giorni e giorni in balia delle correnti, era morto di inedia. Solo Boe, il bandito sardo, ci riuscì.