«Siamo il paese di Beccaria. Di più, siamo il paese in cui unoStato, per primo al mondo, ha abolito la pena di morte: il Granducato di Toscana. Aggiungo: abbiamo una Costituzione che non solo prescrive l’umanità della pena e il suo fine rieducativo, ma che ricorre al verbo “punire” in una e una sola circo-stanza: all’articolo 13, quando si pre-vede che venga appunto punito chi compie violenza sulle persone priva-te della libertà. Eppure...». Eppure Gherardo Colombo vorrebbe aver già compiuto la propria missione di magistrato e intellettuale col contributo offerto in libri come Il legno storto della Giustizia, o nella commissione ministeriale incaricata da Orlando di scrivere i decreti attuativi della riforma penitenziaria. «La commissione Giostra», ricorda con orgoglio il pm scolpito nell’immaginario innanzitutto per l’attività nel pool diMani pulite. Eppure, Dottore Colombo, siamo a ferragosto, con punte di 48 gradi e restiamo indifferenti alla tortura inflitta ad alcune decine di migliaia di persone costrette in celle sovraffollate... ...sovraffollate innanzitutto, e non dirado prive di acqua, di aria, di umanità. E per quanti altri ferragosto dovremo assistere alla tortura? Le dicevo di Beccaria, della Costituzione, del primato nell’abolizione delle esecuzioni capitali, eppure permane un’idea da legge del taglione. Cosa intende dire? C’è prima un’altra considerazione da fare: siamo un paese in cui la cultura di un certo cattolicesimo è radicata. Lo è anche in Spagna, dove la cosiddetta affettività in carcere, ad esempio, è prevista senza scandali. Da noi la politica ha preferito non parlarne. E il testo del decreto che scrivemmo quattro anni fa è rimasto nel cassetto. Siamo un Paese per vari aspetti all’avanguardia nella legislazione carceraria: fosse applicato alla lettera, il nostro ordinamento penitenziario, che pur ha bisogno di tanti miglioramenti, consentirebbe di avere nelle carceri condizioni quasi dignitose. Eppure la cultura del taglione, così diffusa da noi, fa sì che la prassi, quel che succede per davvero, sia spesso lontana dal dettato della legge. Peraltro mi chiedo se ciò non dipenda dall’aver esteso a ogni possibile reato il livello del contrasto che il cittadino comune ritiene necessario per il fenomeno mafioso. Lei dice che la disumanità al limite della tortura è una paradossale generalizzazione delle misure antimafia? La criminalità organizzata rappresenta un fatto che distingue l’Italia dagli altri paesi. Senza arrivare a quelli scandinavi, basta andare in Francia o in Svizzera per trovare condizioni detentive per tanti versi migliori delle nostre. La mafia è un’oganizzazione con capacità criminose eccezionali, e si è ritenuto servissero misure straordinarie per contrastarla: si è probabilmente radicata nel nostro paese la convinzione che si debba replicare a qualsiasi devianza con la stessa durezza adottata contro la mafia. D’altra parte ci sarebbe da dire anche sul trattamento riservato ai condannati per reati di mafia. Da decenni i radicali ricordano che alle atrocità del crimine organizzato non può rispondere la “terribilità” dello Stato. È un’affermazione che mi trova d’accordo. Sono altre le risposte efficaci. L’educazione, innanzitutto. Don Puglisi fu ucciso dalla mafia non perché mettesse in galera gli affiliati ma perché cercava di indicare ai ragazzi la possibilità di una vita diversa, e tante volte ci riusciva. È già finita l’indignazione per Santa Maria Capua Vetere? È tornata a prevalere la cultura generale di questo paese, come sempre: chi ha fatto il male deve soffrire il male, dev’essere perseguito con il male. Nella nostra cultura l’empatia è in via di estinzione? Non so se sia mai esistita. Anzi, forse negli ultimi lustri abbiamo assistito a un progressivo miglioramento almeno nel campo della legislazione penitenziaria. Le dicevo dello scarto fra il testo dell’ordinamento del ’75 e la sua applicazione: di sicuro sul piano normativo ci sono stati passi avanti nella risposta alla trasgressione e alla devianza. Credo ci si possa attendere risultati positivi da alcune delle norme contenute nella riforma appena votata alla Camera. Mi aspetto molto dall’estensione della messa alla prova. Poi però c’è sempre un’ancora che trattiene, e che ci riporta al male da pagare col male. E non mi riferisco solo ad alcuni aspetti critici dello steso ordinamento penitenziario, come il regime del 41 bis o le ostatività dell’articolo 4 bis. La cattiva prassi che tradisce le buone norme sconta la carenza di strutture? Però l’insufficienza delle strutture dipende anch’essa da qualcosa, da una mancata scelta o da una scelta sbagliata. Le strutture, se mancano, si fanno. Anche se per la vera soluzione occorrerebbe soprattutto altro. Cosa esattamente? Si deve drasticamente ridurre la popolazione ristretta. E in tempi brevi può avvenire solo con modifiche normative strutturali in grado di diminuire gli ingressi e aumentare le uscite. Pensa anche all’indulto? Non si tratta di una misura strutturale: indulto e amnistia servono nei casi in cui la drammaticità della situazione è così avanti da non poter intervenire tempestivamente, ma hanno il limite di non consentire un percorso trattamentale, in grado di reinserire le persone di nuovo nella società, e di non agire sulle cause che generano i problemi di cui stiamo parlando. Gli interventi strutturali riguardano la qualità della vita in carcere, l’efficacia delle misure per il reinserimento, che contribuiscono a diminuire la recidiva, e quindi il numero degli ingressi. Pensare a interventi strutturali vuol dire anche preoccuparsi della formazione, ciò che serve affinché, usciti dal carcere, ci si possa reinserire nel mondo del lavoro. Occorrerebbe renderla appetibile, prevedendo che sia remunerata tanto quanto il lavoro. Con la Cassa delle Ammende stiamo facendo il possibile perché la formazione sia promossa ma, ripeto, è necessario si preveda che chi si forma sia retribuito come chi lavora. C’è poi una convinzione che non ho perso e che resta irrisolta ormai da diversi anni, da quando ce ne occupammo prima agli Stati generali per l’esecuzione penale e poi con la commissione Giostra. La necessità di estendere le misure alternative? Sì, anche attraverso l’eliminazione degli automatismi e delle preclusioni negative nell’accesso alle misure alternative al carcere. Insomma, l’impianto che parte culturalmente da un presupposto: la pena non è solo il carcere. Nel 2018 la politica lasciò prevalere l’equazione “a chi fa il male va inflitto il male”. Si dovrebbe decidere caso per caso, e certo vuol dire un lavoro più faticoso, più complesso e per certi versi più rischioso. Ma si attribuirebbe alla magistratura di sorveglianza l’autorevolezza che le serve per svolgere il proprio lavoro. Non si può fare a meno di notare che tra gli stessi magistrati la figura del giudice di sorveglianza sia considerata un po’ di serie B, come se occuparsi di garantire i diritti dei condannati non fosse una funzione rilevante, ma una modesta e burocratica attività di amministrazione. E invece la garanzia dei diritti di chi sta scontando la pena, compresi tra questi quello di non scontarla in carcere, è fondamentale per il recupero di chi ha trasgredito. Ai tribunali di sorveglianza servirebbero risorse adeguate al compito. Un “Ufficio del processo” anche lì? Mi pare che il Recovery non preveda la creazione dell’ufficio del processo nella Sorveglianza. Dipende dal fatto che l’Europa non la comprende, ma bisognerebbe reperire le risorse altrove. Forse se ne potrebbero trovare un po’ nelle pieghe delle dotazioni dell’amministrazione della Giustizia. Ma allora quanto tempo ci vorrà perché il caldo d’agosto smetta di essere l’acme della tortura nelle carceri? Vede, io credo che se si recuperassero alcuni princìpi della matematica, della fisica e della logica i tempi si accorcerebbero significativamente. Cioè? In matematica è chiaro che uno più uno non fa zero ma due: se a un male commesso io aggiungo il male della punizione non elimino il male, lo raddoppio. E ci sono la fisica e la logica: il principio di causalità, per esempio. Mi riferisco ancora alla recidiva, alla tendenza a compiere nuovi reati che si accentua quanto peggiori sono state le condizioni detentive, e diventa molto inferiore se la condanna è scontata in misure alternative al carcere. Possiamo dire che il carcere che non garantisce dignità è causa dell’aumento della recidiva, e quindi della popolazione detenuta. Ecco, basterebbero la matematica, la fisica e la logica. Siamo il paese della Ragione, di Beccaria? Dovremmo esserlo, eppure... Però sono convinto che la nuova amministrazione compirà passi importanti verso un carcere davvero rispettoso della Costituzione, come mi sembra stia già facendo, nei limiti consentiti dalla complessa composizione della compagine governativa.