Il penalista e deputato di Italia Viva Catello Vitiello è primo firmatario di una proposta di legge che «interviene sul delicato rapporto fra giustizia e media e mira a trovare un punto di equilibrio tra le necessità investigative e le esigenze di pubblica informazione in occasione di vicende giudiziarie di pubblico interesse, da un lato, e il diritto dei cittadini alla tutela della loro riservatezza, soprattutto quando risultano estranei al procedimento, dall’altro lato». Tema di grandissima attualità considerato che alla ripresa dei lavori dell’Aula si intensificherà il confronto sul decreto attuativo di recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza.

Onorevole, possiamo dire che il vento è cambiato, tra la riforma penale e la direttiva sulla presunzione d’innocenza. Lei crede però che la magistratura possa compattarsi come baluardo di difesa della libertà di stampa contro il fronte garantista, di cui lei è parte, che invece mira a tutelare le vittime della gogna mediatica?

Preliminarmente mi preme sottolineare che più di fronte garantista, parlerei di coloro che mirano al rispetto dei principi costituzionali e che credono occorra ancora fare qualcosa per attuare pienamente la Carta. Penso appunto alla presunzione d’innocenza che troppo spesso viene calpestata. Ho apprezzato dichiarazioni di tanti magistrati, come Spataro e Violante, che hanno visto nella “riforma di mediazione Cartabia” appena attuata un buon punto di partenza. In merito alla sua domanda accadrà senz’altro come accaduto nel 1988 quando cambiò il codice di procedura penale e nel 1999 con la modifica dell’articolo 111 della Costituzione: la magistratura ha sempre remato contro perché restia ai cambiamenti. In questi momenti l’autonomia della politica diventa fondamentale, per respingere il tentativo di sopprimere le garanzie fondamentali. Considero sacra la libertà di stampa, tanto è vero che nella legge che ho proposto insieme ad altri colleghi di diversi partiti ho riversato il concetto per cui il carcere non rappresenta il giusto deterrente per i giornalisti in caso di diffamazione. È altrettanto vero che la libertà di stampa è un valore da coniugare con altri, come il diritto di difesa, la reputazione, la riservatezza e, in definitiva, la dignità umana dei soggetti coinvolti nelle indagini, che siano essi indagati oppure no. In questo quadro i media dovrebbero prestare maggiore attenzione e sensibilità nel non calpestare quei diritti appena elencati. Oggi abbiamo la copertura della direttiva 343/ 2016 per cui la libertà di stampa non può prevalere su quella alla reputazione.

Qual è il cuore della sua proposta?

Sono due le direzioni che indico: la prima è quella di rimettere mano al segreto investigativo. La norma punta a un rafforzamento della tutela del segreto investigativo, non solo per evitare la compromissione della fase investigativa, ma soprattutto per tutelare i privati cittadini da vere e proprie fughe di notizie non dettate dalla volontà di boicottare l’indagine bensì dalla possibilità di offendere la reputazione di un individuo coinvolto in un procedimento penale. Quello che vorrei far capire è che non vogliamo porre un freno ai cosiddetti scoop giornalistici, ma a quelli fatti a scapito della vita delle persone. Purtroppo oggi noi facciamo la differenza tra divieto di rivelazione e quello di pubblicazione: questo giochetto consente che la notizia esca dagli uffici di procura o di polizia giudiziaria. Invece, il rapporto che intercorre tra le condotte di rivelazione e di informazione è molto stretto, in quanto la rivelazione costituisce un passaggio prodromico essenziale rispetto alla pubblicazione. Quindi quello che proponiamo è che la normativa del segreto di ufficio si estenda anche all’arco temporale in cui gli atti di indagine sono conosciuti dalle parti, cioè fino a quando non inizia il processo vero e proprio. In quest’ultimo caso il ruolo della stampa si rivela invece fondamentale, quando nel contraddittorio e con un giudice terzo si forma o meno la prova. In questo caso la cronaca giudiziaria ha il dovere di far conoscere quando sta avvenendo nell’aula di tribunale, anche per vigilare su eventuali abusi di potere della giurisdizione.

Chi frequenta le aule giudiziarie sa che alcuni giornalisti si vedono solo nel giorno delle conferenza stampa delle procure e quando arriva la sentenza.

Per questo è importante creare un’alta specializzazione per chi è addetto ai lavori e una maggiore responsabilizzazione. Ed è questa la seconda direttrice di marcia della mia proposta: occorre alzare l’asticella per far capire a chi sbaglia che c’è una sanzione, che farà da deterrente. Ma spero sempre che prima di dover applicare una sanzione, cambi il trend culturale della comunicazione giudiziaria. Questo ci espone anche a pesanti critiche da parte della stampa, anche se ammetto con sincerità che il lavoro di tanti magistrati e giornalisti è un lavoro onesto e rispettoso delle regole. Però se in una percentuale minima si violano quelle regole si rischia di rovinare la vita di una persona, i suoi rapporti di lavoro, legami familiari e di amicizia che vengono stravolti quando il suo nome finisce a caratteri cubitali su un giornale.

Dal punto di vista sanzionatorio quale cambiamento propone la proposta di legge?

Per colpire davvero il disvalore delle fattispecie di rivelazione, bisogna attribuire la responsabilità a coloro che, in definitiva, sono i veri “custodi” del segreto. Il nostro testo propone l’inserimento di una nuova fattispecie che riguarda la forma di rivelazione aggravata dalla qualifica soggettiva di chi commette la violazione.