«La ministra Cartabia ha il merito di essere riuscita a compiere una delicata e complessa opera di mediazione, trovando punti di equilibrio che nel complesso hanno portato al miglior risultato possibile». A dirlo è Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale all’Università di Milano, nonché consigliere della ministra della Giustizia, componente del Comitato direttivo della Scuola superiore della magistratura e direttore di “Sistema penale”. E sull’improcedibilità spiega: «Serve a dare un ritmo al processo e un impulso a chi ne detta i tempi, attivando pratiche organizzative virtuose».

Come giudica la versione finale di questa riforma?

Il mio giudizio è molto positivo. L’attenzione mediatica si è concentrata per lo più sul tema della prescrizione e dell’improcedibilità. In realtà si tratta di una riforma molto articolata e di sistema. Gli interventi sono numerosi e attraversano l’intero procedimento penale. Ed è una riforma che ha due anime strettamente connesse: oltre a quella processuale vi è, non meno importante, quella per così dire sostanziale, relativa al sistema sanzionatorio. Le disposizioni in materia di pene sostitutive delle pene detentive brevi, di pene pecuniarie, di messa alla prova, di giustizia riparativa e di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto promettono, in sede di attuazione della delega, una riforma del sistema sanzionatorio di ampio ed elevato respiro, ispirata al principio secondo cui, alla luce dell’articolo 27 della Costituzione, il carcere non è e non può essere l’unica risposta al reato. È un’idea-guida fondamentale, che la ministra Cartabia ha espresso sin dal suo primo discorso in Parlamento, allorché ha illustrato le sue linee programmatiche.

Era il miglior risultato possibile, considerato il contesto generale?

Considerati i tempi ristretti e il contesto, da lei evocato, non esito a dire di sì. Il diritto e la procedura penale sono materie ad elevato tasso di politicità: riflettono nel loro assetto, come poche altre materie, precise visioni e scelte politiche. È evidente allora la difficoltà di mettere a punto una riforma che, pur muovendo da una prospettiva tecnico-giuridica, ispirata ai principi costituzionali e sovranazionali, nonché alle migliori prassi e agli obiettivi dell’efficienza del sistema, contemperi le sensibilità e le visioni di cui sono portatrici le assai diverse forze politiche che compongono l’ampia maggioranza che sostiene il Governo Draghi. La ministra Cartabia ha il merito di essere riuscita a compiere una delicata e complessa opera di mediazione, trovando punti di equilibrio che nel complesso hanno portato, appunto, al miglior risultato possibile. Non dimentichiamo che sulla riforma della giustizia penale è caduto il precedente Governo e che si trattava di scriverne un’altra, assai diversa, partendo dal testo del disegno di legge presentato dal precedente ministro della Giustizia, appartenente a una forza politica che tutt’ora compone la maggioranza.

Alcune cose rispetto alla formulazione iniziale sono rimaste fuori, come l'archiviazione meritata e il rafforzamento delle sanzioni pecuniarie al posto delle sanzioni detentive. Quanto pesano rinunce del genere?

È vero, ed è il prezzo pagato alla mediazione politica e al contesto generale di cui dicevamo. Ma guardiamo a quel che resta dei lavori della Commissione Lattanzi, di cui ho avuto l’onore di essere vice presidente, insieme a Ernesto Lupo. Tante sono le commissioni ministeriali, composte come la nostra da autorevoli professori, avvocati e magistrati, che hanno prodotto mirabili relazioni, che però sono rimaste negli archivi di via Arenula. In questo caso non è andata così. È vero che si è perso qualche pezzo, ma molto dell’impianto di fondo della relazione finale della Commissione Lattanzi è stato recepito nelle proposte emendative presentate dalla ministra Cartabia al Consiglio dei ministri ed è oggi tradotto in un ddl approvato da un ramo del Parlamento. Cito solo alcuni esempi: l’intervento del gip per indurre il pm a prendere le sue determinazioni, scaduti i termini delle indagini; la disciplina del processo in assenza; la riforma dell’udienza preliminare e la previsione di un’udienza filtro davanti al giudice monocratico; l’inclusione delle pene accessorie e della confisca facoltativa nel patteggiamento allargato; l’inammissibilità dell’appello per aspecificità dei motivi; gli interventi sul giudizio di legittimità, compreso il nuovo mezzo di impugnazione straordinario per dare esecuzione alle sentenze della Cedu; l’estensione dell’area della procedibilità a querela; gli interventi per restituire effettività alla pena pecuniaria; la riforma organica delle pene sostitutive; la riforma della pena pecuniaria sostitutiva, con innalzamento da sei mesi a un anno del limite di pena detentiva sostituibile e la modifica al ribasso del criterio di ragguaglio; l’ampliamento dell’ambito di applicazione della tenuità del fatto e della messa alla prova; l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e la definizione del concetto di vittima del reato. Non è poco, e potrei continuare.

Il rafforzamento della regola del rinvio a giudizio implica una ragionevole prognosi della colpevolezza dell'imputato. Quanto è tassativa quella norma per il giudice?

Quella regola di giudizio riflette un principio cardine del sistema: l’imputato deve essere portato a giudizio solo se l’accusa, durante le indagini preliminari, ha raccolto elementi che consentono una “ragionevole previsione di condanna”. Il giudice deve formulare una prognosi – di condanna – sulla base di una diagnosi, relativa agli elementi già acquisiti nel corso delle indagini. Oggi la regola di giudizio fa riferimento alla idoneità degli elementi raccolti dal pm a sostenere l’accusa in giudizio. Quel che spesso accade nella prassi è che questi elementi siano valutati in rapporto alla capacità di andare a consolidarsi e a prendere meglio forma e colore nel dibattimento, assieme ad elementi ulteriori raccolti nell’istruttoria dibattimentale. Così facendo, però, si rischia di portare a giudizio imputati in assenza di elementi che possono fondare una condanna. E lo dimostra l’elevata percentuale di assoluzioni in primo grado. Una modifica era necessaria, anche per veicolare un preciso messaggio culturale. La prassi ci dirà se e come questa nuova regola sarà effettivamente recepita.

Quali saranno gli effetti pratici della retrodatazione dell’iscrizione sul registro degli indagati?

La retrodatazione sarà possibile in caso di ingiustificato e inequivocabile ritardo. Avrà l’effetto di rendere inutilizzabile gli elementi acquisiti dal pm dopo il termine di scadenza delle indagini. È una delle misure che sottolineano l’attenzione della riforma per la ragionevole durata del processo, fin dalla fase delle indagini preliminari. A testimonianza ulteriore di come sia una riforma che riflette un disegno organico e unitario, che va letto nel suo insieme.

In tema di prescrizione, la prima ipotesi della Commissione Lattanzi era un ritorno alla Orlando. Cosa ne pensa della rinuncia a percorrere questa strada, anche alla luce del dibattito sulla improcedibilità?

La Commissione Lattanzi ha presentato due proposte alternative, diverse tra loro, entrambe valide e nessuna senza punti di possibile criticità. La proposta in tema di improcedibilità, tradotta nel disegno di legge ora approvato dalla Camera, sviluppa la seconda ipotesi della Commissione Lattanzi, limitandola ai giudizi di impugnazione. La scommessa su cui regge è che il sistema, con opportuni investimenti, sia in grado di celebrare i giudizi di appello e di Cassazione nei termini previsti, di ragionevole durata. Esattamente come già oggi avviene in Cassazione e in alcune Corti d’appello. L’improcedibilità è un rimedio che, se il sistema è efficiente, come deve essere, non opera. Serve però a dare un ritmo al processo e un impulso a chi ne detta i tempi, attivando pratiche organizzative virtuose. La prima proposta della Commissione Lattanzi è certamente più in linea con la tradizione e meno innovativa: evita la prescrizione quando è imminente ma non produce sostanziali effetti acceleratori, né stimola pratiche virtuose, quando la prescrizione è lontana dal maturare. Il nuovo contesto, che richiede di ridurre i tempi del processo – del 25% nei prossimi cinque anni, come da impegni del Governo con la Commissione europea – esige oggi soluzioni diverse e maggiormente innovative. È per questo, ritengo, che la soluzione dell’improcedibilità è stata preferita.