Domenico Tallini non era consapevole che il clan guidato da Nicolino Grande Aracri avesse intenzione di fare affari nel commercio dei farmaci. È questa, in sintesi, la motivazione depositata dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione, con la quale il relatore Massimo Ricciarelli ha dichiarato inammissibile il ricorso della Dda di Catanzaro contro il consigliere regionale di Forza Italia. Tallini, infatti, nei mesi scorsi era stato arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e voto di scambio. L’indagine, denominata “Farma-business”, lo aveva costretto a dimettersi dalla carica di presidente del Consiglio regionale della Calabria, in quanto il gip di Catanzaro aveva applicato la misura cautelare degli arresti domiciliari, poi revocata, quindici giorni dopo, dal tribunale del Riesame di Catanzaro, per mancanza dei gravi indizi di colpevolezza e insussistenza delle esigenze cautelari. Tradotto: Tallini non doveva essere arrestato perché non avrebbe commesso nessun reato. E ciò si evince dalla sentenza emessa dalla Cassazione che disarticola i motivi di ricorso esposti dall’ufficio inquirente, coordinato dal procuratore capo Nicola Gratteri. Secondo la Cassazione, quindi, «non erano emersi dopo la cessazione dell'attività del Consorzio e della Farmaeko fatti implicanti forme di coinvolgimento di Tallini in affari riconducibili agli interessi del clan Grande Aracri, non potendosi in senso contrario valorizzare una continuità di rapporti tra Tallini e Scozzafava in relazione a successive vicende elettorali». Domenico Scozzafava, all’epoca dei fatti consigliere comunale di Catanzaro, è un antennista che, secondo la procura antimafia, era in rapporti con la cosca di Cutro, ma nei vari incontri avuti con il politico forzista non era mai emerso che dietro al possibile affari dei farmaci potessero esserci i parenti del super boss, Nicolino Grande Aracri, che per poche settimane ha rivestito lo status di collaboratore di giustizia, per essere “bocciato” dopo un mese dalla Dda di Catanzaro, che non lo ha ritenuto credibile. Anche per quanto riguarda il presunto voto di scambio, la Cassazione mette una pietra (quasi) tombale. «La circostanza che esponenti del clan confidassero nel contributo di Tallini non implica di per sé che costui avesse piena contezza di rapportarsi al clan, per il tramite di Scozzafava e di altri soggetti come Paolo De Sole». «In tale quadro - si legge nelle motivazioni della sesta sezione penale - non si espone a censure la valutazione del Tribunale in ordine al carattere di per sé neutro della vicinanza di Tallini a Scozzafava, occorrendo elementi specifici, idonei a dar conto della consapevolezza e della volontà di Tallini di operare a vantaggio del clan in cambio di un ausilio di tipo elettorale». Per quanto riguarda, l’operato istituzionale di Tallini, gli ermellini scrivono che «il propiziato incontro con la dirigente Rizzo non comprovava un'effettiva interferenza dell'assessore; non risultava un'ingerenza di Tallini nella nomina del Brancati, avvenuta sulla base di una procedura regolare; non erano emersi interventi di Tallini in sede di rilascio dell'autorizzazione, essendo per contro inconferente la circostanza, valorizzata nell'atto di impugnazione, che nel corso della procedura potessero essere state usate minacce, oggetto di separato addebito a carico di altri indagati, nei confronti di due dottoresse incaricate di effettuare propedeutici controlli». Infine, la Cassazione mette un punto anche sul presunto coinvolgimento del figlio di Tallini. «Il Tribunale ha rilevato come i soggetti che avevano costituito la società non fossero in apparenza riconducibili al clan e come dunque potesse dirsi priva di rilievo indiziante la partecipazione del figlio dell'indagato, fermo restando che solo nel mese di agosto del 2015 Giuseppe Tallini aveva avuto quell'informazione, non essendovi prova che egli avesse reso di essa partecipe il padre».