La Sesta Commissione del Csm dice no alla riforma Cartabia. La bocciatura è arrivata ieri, con l’approvazione a maggioranza di un parere che dovrebbe arrivare al plenum la prossima settimana e che contesta la norma sulla improcedibilità contenuta nella riforma della prescrizione approvata dal governo. Il parere ha visto il voto favorevole del presidente Fulvio Gigliotti e dei consiglieri della sinistra di Area Elisabetta Chinaglia e Giovanni Zaccaro, nonché di Sebastiano Ardita (Autonomia e Indipendenza). Astenuti invece il laico di Forza Italia Alessio Lanzi e la consigliera di Magistratura indipendente Loredana Miccichè. «Riteniamo negativo l'impatto della norma», ha evidenziato il laico Gigliotti (M5S), perché comporta «l'impossibilità di chiudere un gran numero di processi».

Secondo la Commissione, inoltre, «la disciplina non si coordina con alcuni principi dell'ordinamento come l'obbligatorietà dell'azione penale e la ragionevole durata del processo». Il problema principale consisterebbe nel termine di due anni entro il quale va celebrato il processo di appello, oltre il quale scatta l’improcedibilità: «Non è sostenibile in termini fattuali in una serie di realtà territoriali, dove il dato medio è ben superiore ai due anni ed arriva sino a 4- 5 anni», ha evidenziato Gigliotti, confermando, in pratica, quanto affermato in audizione in Commissione Giustizia alla Camera anche dal procuratore della Dda di Catanzaro, Nicola Gratteri, e dal procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero de Raho. Il consigliere Lanzi ha annunciato però la presentazione di un parere alternativo. «Vedo anche io delle criticità - ha spiegato al Dubbio -, ma ritengo che questo sia il minor male possibile e allo stato l’unica cosa che si possa fare. La cosa fondamentale è uscire dall’attuale sistema della prescrizione, che bloccata dopo la sentenza di primo grado produce di fatto processi eterni. Allo stato attuale, dunque, si può rimanere sotto processo a vita. La cosa migliore sarebbe stato abrogare il blocco della prescrizione, ma ciò non è possibile per una serie di motivi politici. Questa forma di improcedibilità delle fasi dell’appello e della Cassazione, passando da un sistema di rito sostanziale, che attiene alla punibilità del reato, a un sistema unicamente processuale, stempera questo blocco».

Il sistema presenta dei problemi, secondo Lanzi, soprattutto per il fatto che molte Corti d’Appello impiegano più di due anni per concludere un processo, «ma è il minore dei mali, perché consente di uscire dalla prescrizione capestro». Ciò cui bisogna pensare è, dunque, «alle riforme necessarie per far sì che le Corti d’Appello funzionino. In due anni e mezzo, in un Paese civile, un processo deve terminare». Per Lanzi è necessario introdurre riforme strutturali, passando dalla depenalizzazione di alcuni reati ed eliminando l’obbligatorietà dell’azione penale. Secondo il laico, uno degli aspetti critici della riforma è la possibilità, per certi reati, che il giudice preveda una proroga dei tempi del processo. «Credo che non sia legittimo che sia il giudice a decidere la durata del processo, deve farlo la legge, così come stabilito dall’articolo 111 della Costituzione - ha sottolineato -. La ragionevole durata non può essere stabilita volta per volta, ma deve essere valida per tutti, in linea anche con l’articolo 3 della Costituzione».

A confermare i dubbi della Commissione era stato, in mattinata, anche il vicepresidente David Ermini, che a Radio Anch’io ha raccolto l'allarme lanciato dai pm antimafia. Un richiamo, il loro, «su cui bisogna naturalmente metterci attenzione», ha affermato. «Sono dell'idea che la Costituzione vada rispettata - ha evidenziato -, il tempo del processo dev'essere il più breve possibile. Teoricamente è giusto che un processo d'appello possa svolgersi in due anni, ma bisogna mettere i magistrati in condizione di farlo».