Sarebbe stato ingenuo da parte di chi scrive e chi pubblica questo giornale pensare che il pezzo “Noi cronisti e la spazzatura su Libero De Rienzo” non avrebbe provocato un terremoto, soprattutto nell’ambito giornalistico. La diffusione dell’articolo, condiviso da migliaia di persone, ha fatto il resto. Più sorprendente è però la reazione scomposta e più o meno isterica dei due grandi giornali, mai citati esplicitamente nell’articolo  ̶  ma ovviamente, nessun problema a specificarlo, ci riferivamo in particolare al modo in cui Repubblica e Corsera avevano trattato la vicenda e loro si sono riconosciuti  ̶  e esplicitata in due editoriali a firma Alessandro Trocino e Marco Mensurati. Il primo più garbato inizia furbescamente citando un passo di Fortapasc e poi con una prosa elegante e insinuante chiude dicendo che “chiedere un trattamento di favore per qualcuno, solo perché è amico, o di sinistra, o scomodo, questo sì, sarebbe ingiusto”, il secondo più muscolare, dice che loro questo tipo di giornalismo lo fanno da sempre e che nel caso di Maddalena Urbani (figlia di Carlo, medico eroe che isolò il virus Sars) nessuno “del circolo intellettuale che oggi ringhia contro i giornali” reagì male. E poi anche lui non resiste e sostiene che “gli amici” stiano “implicitamente, e in maniera umanamente comprensibile, invocando una sorta di trattamento di favore per un congiunto, un affine (anche solo intellettualmente). Nulla di più”. Ora, qui crediamo nella forza del confronto e della dialettica, e proveremo a fare quello che i due illustri colleghi non hanno fatto: rispondere nel merito. Nel caso del pezzo del Dubbio c’erano riflessioni circostanziate che i due hanno dribblato preferendo l’attacco personale (Trocino ha avuto il buon gusto di citare autore e articolo, Mensurati no), cavalcare una populista accusa di opportunismo elitarista contro la casta dei cinematografari piuttosto che provare a costruire un dibattito adulto, responsabile, maturo. E soprattutto necessario a una categoria che ha perso conoscenza e orientamento tra i punti cardinali della professione. Proviamo a farlo noi, pur riconoscendo ai due giornali un’ottima capacità strategica. Trocino scrive un editoriale nella newsletter del giornale (Il punto) per giocare in casa con un pubblico di parte, Repubblica sceglie Mensurati, uno dei pochi cronisti che affronta onorevolmente il proprio conto, perché a difendere l’indifendibile mandi sempre quello che non ha scheletri nell’armadio. Vecchie tattiche che però danno poco al dibattito, che è quello che interessa a noi (e infatti chi scrive ha usato spesso la prima persona plurale: il problema è di sistema, non solo della categoria). Partiamo dall’accusa di “amicizia”. Cari colleghi, chi scrive ha dichiarato la propria amicizia per un eccesso di zelo, per quell’onestà intellettuale dimenticata da troppi nel nostro lavoro. Se tutti dichiarassimo chi ci ha passato cosa (va bene proteggere una fonte, ma vi guardate bene anche dal far solo intuire da che ambiente arriva la notizia) o appunto l’amicizia con chi è il protagonista dei nostri scritti, i nostri lettori avrebbero tutte le possibilità di giudicare e giudicarci. Invece la maggior parte dei nostri articoli sono figli di un’imparzialità tutta presunta: siamo cittadini e uomini e abbiamo il dovere di essere sinceri con chi ci legge. Io l’ho fatto, per dare a tutti la possibilità di giudicare con obiettività sia l’autore sia cos’aveva scritto. E infatti vi ha dato la possibilità di accusare “il circolo intellettuale”, “gli amici del cinema”. Voi lo fate? No, mai. Ed è sbagliato, soprattutto in un giornalismo così suddito come il nostro. Trocino poi, dopo aver tirato di nuovo fuori Siani piuttosto a sproposito, parla della richiesta del lettore di non essere sgradevoli e fa intendere che no, la cronaca e in particolare nera, non può non esserlo perché tale è la realtà. Mensurati, che al posto del fioretto ha inforcato la spada, si vanta semplicemente del fatto che il suo giornale è stato altrettanto sgradevole con Maddalena Urbani, appena maggiorenne. Affascinanti modi di giustificare la violenza gratuita e pretestuosa di certi articoli. Siccome sono giornalisti ricordiamo loro i fatti: ad ora non si è riuscita neanche a stabilire la causa della morte. Ma loro senza entrare in casa del morto, hanno scritto di strisce bianche tra salotto e cucina, di buste di cellophane con eroina dentro, di “non si può escludere che”. Qui non si tratta di sgradevolezza, si tratta di obbedire a due regole base, che nell'articolo precedente non abbiamo sentito il bisogno di ricordare per un eccesso di fiducia nel genere umano e nella categoria: dopo i frequenti dibattiti degli ultimi anni sul segreto istruttorio, eravamo convinti che anche ai più duri di comprendonio dei colleghi fosse entrata in testa che non li vogliamo gradevoli, ma solo operanti nella legalità. E che il diritto di cronaca ha il suo argine nel non condizionare l'inchiesta e il buon esito della stessa. E dovendo prendere per buone le indiscrezioni dei loro articoli, il presunto spacciatore omicida avrà avuto ogni possibilità di fuga, inquinare prove e testimonianze. Non vi chiediamo gradevolezza, ma correttezza. Non vi accusiamo di aver scritto che la procura lavorasse sull'ipotesi investigativa di “morte come conseguenza di altro reato”, siamo indignati per aver esposto al pubblico ipotesi che non potevano non essere che frutto di veline di inquirenti e forze dell'ordine, non notizie. Perché il nostro è un mestiere di fatti, non di “si dice”, di “polveri bianche”. Il problema è che citando Siani (siamo bravi anche noi a farlo) ci sono giornalisti-giornalisti e giornalisti-impiegati. E aggiungiamo noi, giornalisti stenografo. Quelli che ricopiano fedelmente le parole, le indiscrezioni, i pareri di una delle parti in causa. Di quelli che dovrebbero essere oggetti dei loro controlli. Abbiamo appena scavallato il ventennale di Genova 2001: immaginate se di fronte alla Diaz i cronisti si fossero bevuti la balla delle molotov o delle ferite pregresse. Hai ragione Trocino, ci sono anche giornalisti-giornalisti. Ma il sistema premia gli altri. Il nostro è un albero pieno di mele marce e dovremmo nasconderci dietro quel dieci per cento di frutta non guasta? Tornando a Mensurati, che ha la sventura di scrivere per un quotidiano che la bussola l'ha persa da parecchio, il suo pezzo è piuttosto spericolato. Ha la furbizia di non citare il sottoscritto, ma un generico “circolo intellettuale” - pescare a strascico evidentemente è un vizio, cosa viene su poco importa -, ma dimostra di non essere informato (la stessa penna che si è scagliata contro i giornalisti che hanno affrontato l'affaire De Rienzo si è indignato per il trattamento a Silvio Berlusconi e Lapo Elkann, non proprio l'identikit che darebbe dei propri “amici”) e di ignorare le regole elementari della professione. Si trincera dietro Maddalena Urbani e il fatto che il circolo dei cinematografari non l'abbia difesa, un benaltrismo carpiato che lascia basiti solo a ripeterlo. Con retorica grillina insinua che la élite se ne freghi della gente normale, ma non risponde nel merito. Sì, cari colleghi, perché quello che manca nelle vostre editorialesse permalose e risentite sono le risposte. Diteci, è vero o no che i cronisti di nera sono cassette della posta che attingono per le loro notizie quasi esclusivamente da ciò che gli elemosinano le forze dell'ordine? Curiosamente a questo non avete risposto. E ancora, come mai nei vostri apodittici “le notizie vanno date, perché sì, pappappero” non citate capisaldi della nostra società civile, del nostro ordinamento e della professione come il rispetto del segreto istruttorio (ah, se la risposta è: lo fanno tutti, avete la risposta sul perché a malincuore ho sottolineato che da cani da guardia siamo diventati topi di fogna). Non ci sono carte deontologiche che proibiscono il 70% delle cose che avete scritto nei vostri pezzi? Sfruttare il peso della propria firma e della propria testata per fare bullismo a un collega che solleva un'autocritica su cui dovremmo confrontarci, su un ambiente ferito che ha reagito compostamente, è davvero il compito del giornalista? E ancora, se è vero che per voi i morti sono tutti uguali, perché un grand commis dello Stato italiano che si suicida viene trattato con (giustissimo) rispetto e così il tentativo di suicidio di una dirigente di un ministero di cui erano tutti amici (qualcuno come me ha avuto il buon gusto di dirlo), e in entrambi i casi c'erano lati inspiegabili della vicenda o comunque di difficile interpretazione? Non sarà che il trattamento di (s)favore lo fate voi? L'attore con dipendenze, nella penuria di notizie di luglio, con simpatie politiche scomode e battaglie anche più antipatiche per Stato e istituzioni, può essere trattato con meno empatia dei potenti da proteggere? Ci sono morti più uguali delle altre per cui ci si può dimenticare più serenamente le regole che con quel tesserino ci impegniamo a rispettare? E pure il codice penale? Poi, facciamo un gioco, vi va? Prendiamo i pezzi usciti sui maggiori giornali e siti. Togliamo gli autori. Presentiamoli come compiti al prossimo esame da giornalisti professionisti. E vediamo chi e quanti verranno bocciati. Mensurati dice che se i giornali smettessero di dare le notizie “usando un criterio nobile e umanamente accettabile come quello del dolore arrecato - sarebbe un giorno un po' più simile alla notte”. No, è già notte perché per dare delle non notizie, per farvi megafono di altri, al dolore arrecato neanche pensate. Tra il potere e i deboli scegliete il primo, pure fieri. No, con Picchio non stiamo proteggendo un amico, noi vogliamo difendere tutti. E sì, il dolore di vederlo schiacciato in un personaggio funzionale di bassa lega, un brutto racconto d'appendice, ci ha ferito. Come ci ferisce quando un femminicidio diventa un romanzo Harmony “in cui lui l'amava troppo”. Colleghi, riflettiamo. Se questa (auto)critica ha così colpito l'immaginario di tutti, è perché il problema non è Libero, ma anni in cui si è fatta carne di porco del nostro mestiere, prima per qualche copia, poi per qualche click in più. E una supercazzola isterica e affatto argomentata come risposta non aiuta. Se i nostri lettori - i nostri primi referenti, ricordiamolo, a cui non dobbiamo obbedire ma che dobbiamo rispettare - si indignano così e da tanto, troppo tempo, abbiamo un grosso problema. Ma vuol dire ancora che non si sono arresi, loro. Se si arrabbiano, sperano ancora in un'informazione migliore. Torniamo degni di chi ci ha insegnato il mestiere, torniamo degni della nostra passionaccia. Confrontiamoci, invece di replicare le dinamiche di potere di una società che dovremmo raccontare, migliorare e non assecondare nei suoi bassi istinti. Sì, Picchio era mio amico. Ma rimango un giornalista.