I recenti episodi di violenza, in alcune carceri italiane, mettono in evidenza la necessità di esprimere, con forza, una indignata  protesta contro simili incivili fatti e nel contempo di rinnovare  l’impegno, a garantire il rispetto del dettato costituzionale ( art.27) della umanità e della finalità rieducativa della pena. Punire chi compie un reato vuol dire, sicuramente, sanzionarne la condotta illecita, ma nello stesso tempo deve esprimere il grado di civiltà di un Paese, attraverso la predisposizione di adeguati strumenti, che garantiscano il concreto ed effettivo perseguimento del fine risocializzante della pena. Il carcere non è, sicuramente,  lo strumento più adeguato per il  perseguimento della  finalità rieducativa della pena  e, nel tempo, probabilmente sarà gradualmente  sostituito da altre modalità di esecuzione della stessa,  più coerenti con il principio espresso nella Carta costituzionale, ispirata alla prioritaria tutela della persona umana. E’ auspicabile, inoltre, che nel tempo cambi l’intero sistema punitivo penale, in modo che non sia fondato essenzialmente  sulla privazione della libertà personale. In attesa, però, che l’evoluzione legislativa, nazionale e sovranazionale, indichi nuovi  orizzonti e migliori obiettivi di civiltà è indispensabile riaffermare la necessità dell’inderogabile  rispetto della dignità umana del condannato. Nicolò Amato, autore di “Oltre le sbarre” e direttore generale per gli istituti di pena negli anni 80, scriveva: “ il carcere della speranza è possibile. E’ possibile un carcere della speranza per prigionieri della speranza. E se può allora deve essere costruito, giacchè l’alternativa al carcere della speranza è la speranza di fare a meno del carcere, dunque l’attesa inerte di un meglio , almeno per ora irraggiungibile , cioè di qualcosa che non possiamo avere , ovvero è il carcere senza speranza, dunque l’inerte rassegnazione a un peggio da tempo inaccettabile, cioè qualcosa che non vogliamo avere ”. I denunciati episodi di violenza  contraddicono, però,  vistosamente tutti gli sforzi, anche normativi, di costruire, con le riforme che si sono succedute nel tempo sin dal 1975, il Carcere della speranza; quel luogo “aperto” dove l’individuo non venga umiliato, degradato, emarginato e dimenticato,   ma sostenuto nel suo percorso di recupero. Un carcere “aperto”, così come auspicato  dalla legge Gozzini, non può contemplare l’uso della violenza , del controllo invadente,  umiliante e degradante dell’individuo; dovrebbe, di contro, garantire i diritti dei condannati, elevarne la umanità, la cultura , la sensibilità, la comprensione degli errori, eventualmente compiuti, attraverso la prospettiva di un nuovo possibile orizzonte di vita, da coltivare in un ambiente dove prevalga il senso rieducativo e non quello vendicativo della pena. La rieducazione è possibile solo in un ambiente dove trionfi l’umanità e non il degrado. La  Corte europea per i diritti umani di Strasburgo  ha condannato l’Italia per violazione dei diritti dei detenuti a causa del sovraffollamento  delle carceri, considerato strutturale, e per trattamento inumano, tanto da ritenere violato l’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che vieta la tortura e i trattamenti inumani o degradanti.  Le condizioni di vita, all’interno degli istituti penitenziari , censurate dalla Corte di Strasburgo, riguardano tra l’altro gli spazi ridotti, celle molto piccole( meno di 3 mq.), mancanza di acqua calda e scarsa illuminazione. In un contesto, così rappresentato, è veramente difficile pensare, ipotizzare e sperare nell’affermazione della risocializzazione. Il tempo della pena diventa, così,  vuoto,  dalle prospettive nulle e può generare solo disperazione ed, a volte,   gesti di autolesionismo. I suicidi o i tentativi sono una drammatica realtà, che evidenziano l’assenza di speranza, sottolineano il trascorrere di un tempo inutile, che alimenta il disagio, la disperazione, il dolore. In questo ambito è facile ipotizzare che, l’assenza di prospettive di una nuova vita oltre le sbarre, possa, di contro, favorire il potenziamento criminale del detenuto . Il carcere della speranza e della solidarietà non può essere costruito con  la violenza e la vigilanza invadente ed umiliante, che ne costituiscono,  invece, l’antitesi ed alimentano solo  odio, rancore, degrado e frustrazione. Questi drammatici fatti demoliscono tutto l’impegno profuso, anche dal legislatore, per ipotizzare modalità alternative all’esecuzione in carcere della pena detentiva,  fondate essenzialmente  su un rapporto di fiducia tra lo Stato e il detenuto, in forza del quale quest’ultimo viene ammesso al lavoro esterno, ai permessi premio, alla semilibertà, all’affidamento in prova, alla detenzione domiciliare, proprio in conssiderazione di un graduale percorso fiduciario, finalizzato alla sua completa risocializzazione, nel  carcere “ aperto”. “La pena deve essere aperta alla speranza” così ha detto, ai detenuti di Regina Coeli, Papa Francesco, ma per esserlo effettivamente è indispensabile che,  all’interno delle strutture penitenziarie, vengano garantiti i diritti dei detenuti: -quello alla salute,  le recenti rivolte, sorte in alcune carceri nel corso  dell’emergenza sanitaria a causa dell’assoluta inadeguatezza dei controlli sanitari e  delle cautele per evitare la diffusione del virus, hanno drammaticamente evidenziato l’insufficienza del sistema sanitario penitenziario;-alla istruzione, la possibilità di frequentare scuole, anche professionali, e università, al fine di accrescere la cultura, la sensibilità del detenuto e di offrirgli maggiori possibilità di inserimento nella società;  -al lavoro,   la concreta  risocializzazione passa attraverso l’impegno lavorativo , che produce autonomia, autostima, possibilità di progettare il proprio futuro;-alla valorizzazione della personalità, attraverso la pratica sportiva, artistica e più in generale mediante lo svolgimento di tutte quelle attività che stimolino la  creatività ed il talento, spesse volte sconosciuti, delle persone. Il carcere dei diritti potrà, così, rappresentare adeguatamente una importante condizione per raggiungere la finalità rieducativa della pena e per accogliere l’invito di Papa Francesco, sempre ai detenuti di Regina Coeli, di rinnovare lo sguardo.Ma nel carcere dei diritti non c’è spazio per la violenza, per la umiliazione , per il degrado e le Autorità politiche dovranno garantire il concreto esercizio dei diritti dei detenuti , non solo prevedendo la figura istituzionale del Garante dei diritti dei detenuti, ma investendo notevoli risorse finanziarie per creare  strutture adeguate e nello stesso tempo per evitare, attraverso incisivi controlli preventivi, che i recenti episodi di violenza possano nuovamente verificarsi.La pena potrà, così,  essere concretamente umana ed aperta alla speranza e non rappresentare, un percorso che, inevitabilmente, porti alla crocifissione. Anche qui è importante ricordare la straordinaria partecipazione, con Papa Francesco, alla Via Crucis  , dei protagonisti della vita penitenziaria.In conclusione , credo che tutti auspichiamo un mondo senza carcere , ma, come sosteneva e scriveva Nicolò Amato, in attesa di individuare qualcosa di migliore del carcere,  lavoriamo tutti per avere un carcere migliore. Avvocato Pietro Perugini       presidente della Camera penale di Cosenza