Hanno fatto benissimo i calciatori inglesi a togliersi dal collo quellinutile pizza di fango. Quando perdi una partita così nel tuo giardino di casa dopo che lhai aspettata per cinquantacinque anni, vorresti solo mettere la testa sotto il cuscino e dimenticarti di tutto. Altro che celebrare gli avversari sfoggiando sorrisi di plastica davanti al mondo che si gode la tua ennesima capitolazione. Quella patetica medaglietta di consolazione è una gratuita crudeltà, il marchio beffardo della sconfitta che, per i sudditi di sua maestà sembra un eterno ritorno; come se avessero inventato il pallone al solo scopo di destinarlo ad altro e ad altri, costretti a vederlo rotolare su e giù per il mondo senza mai che torni a casa.È una frustrazione unica e domenica sera la potevi vedere benissimo la nuvoletta immaginaria con i «fuck you!» che volteggiava sopra i volti sfranti dei vari, Shaw, Mountt, Foden, Grealish. In fondo la disfatta è lunica cosa che gli resta, che se la vivano come vogliono, tanto i cocci sono i loro. «È un gesto bruttissimo, che non avremmo mai voluto vedere» ha esclamato durante la premiazione dellEuropeo limprovvisata coppia di commentatori da sacrestia della Rai Bizzotto-Serra, più indignata dal comportamento dei nostri avversari che contenta per la vittoria finale della squadra di Mancini. E con loro la quasi totalità dei commentatori sportivi e non, tutti a spiegare quanto sono brutti, sporchi e cattivi questi inglesi, quanta mancanza di fair play nel loro rifiuto, quanta somma maleducazione, alcuni evocano sanzioni, multe e retrocessioni per manifesta antisportività. Altri invece ci ammorbano con i soliti, scontatissimi riferimenti alla Brexit e alla giusta vendetta che ha colpito la perfida Albione. Cè persino chi paragona la cafonaggine inglese alleleganza del tennista Matteo Berrettini che aveva accettato con serenità il vassoio riservato al finalista sconfitto di Wimbledon, dimenticando che tra il tennis e il pallone ci sono differenze ontologiche e che lo stesso Wimbledon si disputa in un clima da Inghilterra vittoriana in cui i giocatori si devono tutti vestire di bianco e i poliziotti in tribuna controllano che i tifosi facciano silenzio. Questo coretto ipocrita e moralista è conforme alla retorica farlocca dellUefa e della Fifa che da anni provano a vendere il calcio come un teatrino edificante di valori dove i suoi interpreti sono asettici testimonial di messaggi positivi da trasmettere ai giovani. Proprio la stessa Uefa che fece giocare la finale di Coppa dei Campioni dell85 nel fatiscente stadio Heysel con decine di tifosi juventini morti sugli spalti o che non fermò la giostra nemmeno dopo gli attentati dell 11 settembre 2001. La stessa Fifa che ha assegnato i prossimi Mondiali al Qatar, ammaliata dai fiumi di petroldollari degli emiri, e pazienza se nei cantieri degli stadi i migranti asiatici muoio no come mosche lavorando in condizioni di autentica schiavitù (almeno 6500 le vittime). E pazienza se il Qatar è quelloi un tempo si sarebbe detto Stato canaglia con le sue reti tentacolari di finanziamento al terrorismo jihadista. Quel che conta è sorridere ai fotografi, magari inginocchiarsi prima del fischio di inizio per combattere il razzismo oppure mettersi al collo una medaglietta.Insomma, vendere un mondo che non cè, una realtà parallela confezionata come uno spot pubblicitario in cui tutti sono buoni, uniti e rispettosi, in cui tutti rendono onore al nemico e si felicitano con lui. E se qualcosa interviene a sporcare il quadretto? Semplice: basta nasconderla. Come è accaduto nel secondo tempo della finale di Wembley con linvasione di campo di un tifoso inglese rigorosamente oscurata dalle telecamere internazionali. La policy che impone di censurare quelle immagini (riprese da migliaia di smartphone e in pochi minuti diventate virali sul web) è la rappresentazione plastica di un mondo del calcio completamente scollato dalla realtà, governato da tromboni e baroni che ogni giorno mandano in onda il loro Truman show con la sola, ossessiva idea di generare profitti. Ma chi conosce e ama il calcio sa che la realtà è ben diversa, che mica siamo alle Olimpiadi dove limportante è partecipare, che non esiste nessuna medaglia dargento da incorniciare in salotto, che arrivare secondi dopo aver annusato la gloria ti può far impazzire di rabbia. Il calcio è una cosa ben poco sportiva che genera passioni a volte malsane e rivalità esasperate e in fondo questo è il suo bello, il suo elemento irriducibile alla propaganda di chi vorrebbe trasformarlo in una specie di giochi senza frontiere. Quel che conta non è il rispetto, non è la lealtà, ma la competizione: la sconfitta è sempre una ferita bruciante, mentre la vittoria porta con sé il gusto ferino dell'umiliazione altrui. È una metafora catartica della guerra, un carnevale dello spirito in cui far correre libere le nostre pulsioni primordiali. Italiani contro inglesi, francesi contro tedeschi, argentini contro brasiliani, e ancora milanesi contro romani, parigini contro marsigliesi, Liverpool contro Manchester, Barcellona contro Madrid, derby infuocati, cartellini rossi, polemiche che si trascinano per giorni, mesi e anni, ma anche partite truccate, sudditanze psicologiche, insulti grossolani.Il calcio non è solo un bel gol, pressing e tiki-taka, catenaccio e giochismo, esso risplende anche nella testata di Zidane sul petto di Materazzi, nello sputo di Totti allurticante Paulsen, sono le corna di Cassano allarbitro Rossetti, la corsa inferocita di Carletto Mazzone sotto la curva dei tifosi atalantini, è la mano de Dios di Maradona a Città del Messico (sempre agli inglesi tocca, poveretti), è il sublime colpo di karate di Eric Cantona che manda al tappetto il tifoso razzista che lo stava insultando: «È stato il momento più bello della mia carriera», confessò poi il fantasista francese. Come dargli torto.