Non c’era altra scelta: portare in Consiglio dei ministri gli emendamenti governativi al ddl penale oppure restare nella palude dell’irrisolto per tutta l’estate. Alla fine Marta Cartabia e Mario Draghi hanno preferito vivere. Anzi, evitare di convivere all’infinito coi veti del Movimento 5 Stelle sulla prescrizione. Hanno deciso di discutere del processo penale nel luogo che rappresenta l’attuale maggioranza al più alto livello: il Consiglio dei ministri, appunto. Così ieri alla Camera la guardasigilli, dopo il question time, ha confermato quanto il premier aveva anticipato lunedì con un filo di mistero: «A breve» gli emendamenti al penale saranno discussi con gli altri ministri. E alla domanda se sia riuscita a trovare una mediazione, Cartabia ha risposto con ottimismo: «Sì, sicuramente: siamo davvero in dirittura d’arrivo».

La scelta è impegnativa. Inedita, o quasi. In Consiglio dei ministri ci vanno di solito i disegni di legge, non gli emendamenti ai testi già incardinati in Parlamento. Ma appunto, Cartabia e Draghi non potevano far altro. Hanno condiviso l’idea, inconsueta ma necessaria. Lo hanno fatto in base a una logica chiarissima. Innanzitutto, completare con le necessarie modifiche la riforma penale è obiettivo che riguarda in termini strutturali l’intera fase politica in corso. Non approvare quel ddl vorrebbe dire essere messi in mora dall’Unione europea, che ha chiesto interventi radicali sulla giustizia a garanzia del Recovery fund. Non si può temporeggiare: il testo sul penale va approvato, e per farlo vanno discusse e votate in tempi brevi le modifiche necessarie, incluse quelle ipotizzate a via Arenula.

Dopodiché, è noto come il Movimento 5 Stelle non accetti modifiche alla legge Bonafede sulla prescrizione. Più precisamente, i pentastellati sono disposti a tollerare solo la rimodulazione prevista dal “lodo Conte bis”, che distingue la posizione di chi è assolto in primo grado. È il nodo prescrizione a tenere bloccato il ddl. La settimana scorsa il presidente della commissione Giustizia della Camera Mario Perantoni, deputato 5s, aveva comunicato a Roberto Fico che la riforma sarebbe arrivata in Aula ben oltre la data fissata, il 28 giugno. L’esame degli emendamenti non è ancora partito proprio a causa dello stallo politico sulla prescrizione, che ha impedito a Cartabia di depositare le proposte studiate al ministero. Ma non si poteva andare avanti per molto. L’addio alla prescrizione di Bonafede è considerato necessario dalla guardasigilli. Ed è ormai scritto in quegli emendamenti governativi che stanno per essere discussi con gli altri ministri. Una volta che a Palazzo Chigi, seppur a maggioranza, si sarà deliberato sulle proposte di via Arenula, sarà chiaro che un ulteriore ostruzionismo politico dei 5 stelle equivarrebbe a una manovra contro l’intero governo. Con tutto ciò che ne può conseguire per l’attuazione de Piano di ripresa e l’uso dei fondi europei.

La mossa di Cartabia sembra insomma destinata a sbloccare la partita. Oggi è in calendario un’anteprima: nella commissione Giustizia sarà audito Giorgio Lattanzi, presidente emerito della Consulta ( come Cartabia) e alla guida della commissione a cui la guardasigilli ha chiesto di avanzare proposte sul ddl penale. Lattanzi illustrerà di nuovo la sua ampia relazione, che aveva già discusso il mese scorso con i partiti. Tra i 5 stelle c’è chi, come Perantoni, legge il passaggio in chiave positiva: «Con l’audizione di Lattanzi», fa notare il presidente della commissione, «si chiude l’istruttoria sulla riforma. Come annunciato dalla ministra Cartabia, sono in arrivo anche gli emendamenti del governo: il percorso delle riforme prosegue nonostante i protagonismi referendari e un certo disfattismo. Noi abbiamo scelto di lavorare senza pregiudizi in commissione e fare la nostra parte di parlamentari». Pare il preludio a

Ddl civile, no anche dal "patto per l'avvocatura"

Il paradosso e che ora rischia di diventare più complicato il percorso del ddl sul processo civile, all’esame del Senato e sul quale Cartabia ha depositato i propri emendamenti la settimana scorsa. Restano nodi di cui soprattutto il mondo forense, Cnf e Unione Camere civili in testa, continua a chiedere la revisione. Ieri è toccato al “Patto per l’avvocatura”, schieramento associativo di cui fa parte Movimento forense, rinnovare le critiche, su due aspetti in particolare. «Al netto dell’apprezzabile rafforzamento degli incentivi per gli strumenti di giustizia complementare, non possono essere condivise molte delle proposte governative, che, ripercorrendo una tecnica legislativa non più accettabile, denotano l’evidente finalità di disseminare, ovunque nel giudizio, inutili barriere all’esercizio della difesa soltanto per le parti e i loro avvocati, ben guardandosi dal prevedere termini perentori per i magistrati».

E ancora, secondo il “Patto per l’avvocatura”, «risulta addirittura aberrante l’intenzione di ampliare l’ambito di applicazione dell’articolo 96 c. p. c., imponendo significative sanzioni economiche a chi abbia avuto perfino l’ardire di resistere in giudizio “senza aver adoperato la normale diligenza per acquisire la coscienza dell’infondatezza della propria posizione”: siamo ormai al vero e proprio processo alle intenzioni, di per sé intollerabile - diremmo: inconcepibile in uno Stato di diritto». E «se queste sono le fondamenta della riforma in atto», conclude il documento, «l’Avvocatura non potrà rimanere inerte di fronte allo smantellamento scientifico del giudizio civile in nome della celerità fine a se stessa». Rilievi di merito, non totem idelogici. Difficile che il governo possa evitare di discuterne.