«È un primo passo. Il referendum può mobilitare le coscienze e aprire la strada a una riforma della giustizia vera, che non può esserci se non è innanzitutto ordinamentale. I quesiti promossi da radicali e Lega, e quello sulla separazione delle funzioni dei magistrati in particolare, non produrrebbero l’esito normativo davvero necessario ma ne favorirebbero uno importante sul piano politico- culturale: far comprendere una volta per tutte quanto sia urgente la riforma scritta da noi penalisti, quella costituzionale per la separazione delle carriere».

Beniamino Migliucci si è confrontato eccome con la volontà popolare, col “sentire diffuso” sulla giustizia: è stato presidente dell’Ucpi quando l’associazione dei penalisti italiani ha raccolto le firme per la legge popolare sulle carriere, appunto. Poi quando Gian Domenico Caiazza, nel 2018, gli è subentrato al vertice dell’Unione, Migliucci ha mantenuto un ruolo specifico rispetto a quell’iniziativa, come presidente del Comitato promotore per l’approvazione della riforma. Il penalista di Bolzano dalle origini partenopee è tuttora convinto che ci sia lo spazio politico per cambiare radicalmente l’ordine giudiziario. E che si tratti di uno spazio da consolidare in modo che l’onda delle urne arrivi in Parlamento.

Partiamo dalla riforma: vede i partiti ancora a disagio nel rivendicare il primato della politica rispetto alla magistratura?

Sì, mi pare non si sia ancora ritrovata piena consapevolezza di quel primato. Veniamo da una fase in cui sono prima prevalse scelte nettamente giustizialiste, col governo gialloverde, seguita da un’altra, quella dell’alleanza giallorossa, che non è stata molto diversa. Tuttora vedo esitazioni legate al timore di far dispiacere i magistrati, diciamo così. Con una parte che si considera custode di un assetto ordinamentale favorevole alle toghe, e un’altra che se dice cose diverse passa per nemica dei giudici...

Ed è questo il problema del referendum? Può apparire come un’iniziativa “anti- magistrati”?

In realtà è la Anm che con la propria grottesca reazione vuole far passare i quesiti come un atto ostile nei confronti della magistratura. Io confido che radicali e Lega propongano il referendum chiave, quello sulle funzioni di giudici e pm, come primo passo verso la legge costituzionale sulle carriere. Il Partito radicale è stato il solo direttamente coinvolto nella nostra raccolta firme del 2017. Matteo Salvini ha comunque sottoscritto quella legge d’iniziativa popolare.

Ma quindi lei condivide l’idea di Flick per cui una vera riforma deve essere per forza costituzionale?

Si, sono pienamente d’accordo col presidente Flick e aggiungo: quella riforma costituzionale deve riguardare l’ordinamento della magistratura. Ci possono essere norme utili e giuste, intendiamoci, da approvare per legge ordinaria. È positiva la volontà di superare la prescrizione di Bonafede, così come nello stesso progetto di riforma sul processo penale preoccupa l’idea di limitare le impugnazioni, con l’appello dell’imputato che rischia lo svuotamento. Ma solo se vengono separate le carriere e non semplicemente le funzioni, riusciremo a ottenere un processo in linea con l’articolo 111 della Costituzione, grazie a un giudice davvero terzo, non più condizionabile dai magistrati dell’accusa, che votano al Csm su promozioni e disciplinare.

Perciò la posizione dell’Ucpi sui referendum non è così entusiatica?

Aspetti. Io condivido pienamente il documento approvato dalla giunta del presidente Caiazza. E ribadisco che le iniziative referendarie possono essere di stimolo rispetto alla realizzazione delle riforme. Se i quesiti ottenessero le firme necessarie, se fosse raggiunto il quorum e la maggioranza si mostrasse favorevole alla separazione delle funzioni, il segnale di un interesse per una grande riforma ordinamentale sarebbe chiarissimo. Anche al di là degli effetti che la norma residuata dal referendum provocherebbe.

A cosa si riferisce?

Il quesito sulle carriere in realtà separa solo le funzioni. Nel senso che rende impossibile il passaggio da pm a giudice. Ma la magistratura associata dice: già ora i passaggi di funzione riguardano appena il 2 per cento delle toghe. Di fatto c’è il rischio che quel quesito, se approvato, cristallizzi semplicemente la situazione attuale: passaggi di funzione vietati ma con una sorta di falsa legittimazione della magistratura nel dire che non si deve andare oltre.

Come si evita il paradosso?

Col radicarsi in Parlamento di una forza trasversale favorevole alla vera separazione delle carriere. Il presidente dell’Ucpi Caiazza e l’onorevole Costa hanno il grande merito di aver favorito la nascita di un intergruppo parlamentare per l’approvazione della nostra legge. A quell’intergruppo hanno aderito anche parlamentari del Movimento 5 Stelle. La politica deve saper guardare alla giustizia in modo laico e nel vero interesse dei cittadini. Deve comprendere che un giudice forte perché distinto dal pm sul piano ordinamentale è la chiave di tutto. È il presupposto irrinunciabile per riportare l’equilibrio fra processo e indagini allo schema immaginato con la riforma del 1988: quelli raccolti dal pm sono elementi da valutare nel contraddittorio, non prove inconfutabili. Sarebbe una svolta anche rispetto ai riflessi mediatici della giustizia penale.

Ma l’Anm si oppone in maniera netta ai referendum.

Quando si parla di separazione delle carriere, l’Anm sostiene sempre che i problemi sono ben altri. Mi chiedo perché per esempio ci si debba opporre al voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. Che senso abbia, per l’autorevolezza della magistratura, resistere a un cambiamento in grado di favorire valutazioni di professionalità finalmente non più connotate dalla quasi universale eccellenza.

Secondo lei, difendere lo status quo, con un pm fortissimo perché unito al giudice sul piano ordinamentale, intriga alcuni partiti anche perché proprio questi ultimi considerano la politica un’accolita di malfattori a cui va opposto un inquisitore onnipotente?

È una distorsione eticizzante del ruolo attribuito al pm che potrebbe condizionare davvero i partiti contrari alla separazione delle carriere. È assolutamente plausibile che una parte della politica, quella più orientata in senso giustizialista, e non mi riferisco solo ai 5 stelle, voglia stare aggrappata a quell’immagine del pubblico ministero. Ma io vorrei ricordare che praticamente in tutte le democrazie progredite la magistratura requirente è distinta sul piano ordinamentale da quella giudicante, e che secondo la riforma dei penalisti il pm non sarebbe affatto sotto il controllo dell’esecutivo, né diventerebbe un superpoliziotto. Ci si deve rendere conto che una riforma della giustizia è decisiva rispetto alla separazione dei poteri. Che non è pensabile continuare ad assistere a pm e giudici uniti nella malintesa prospettiva di dover combattere fenomeni criminali anziché perseguire specifici reati. Che un giusto processo è possibile solo se pm e giudice sono strutturati in ordini diversi. Le parole sono rivelatrici: il Csm continua a essere definito dall’Anm come il luogo dell’autogoverno, ma l’espressione corretta è governo autonomo. Chi parla di autogoverno sembra alludere a un sistema nel quale gli altri, innanzitutto la politica, non devono osare intromettersi. Sembra suggerire l’idea di magistrati convinti che debbano vedersela loro. Non può essere così. La funzione giudiziaria riguarda tutti. È organicamente decisiva per gli equilibri della democrazia. Ed è giusto che i cittadini se ne interessino. Ne sono convinto come sono convinto che solo con le carriere separate potremo definire organica anche la riforma della giustizia.