«Nell’attesa che la giustizia completi il suo cammino, senza mai sottrarmi al vaglio critico dell’autorità giudiziaria, riprendo la parola, tornando dall’esilio in cui avevo scelto di stare. Ci sentiamo presto». Nichi Vendola, ex governatore della Puglia, ha scelto la sua pagina Facebook per far sapere di essere pronto a tornare sulla scena che aveva deciso di lasciare nel momento in cui era finito sotto processo, a conclusione dell’inchiesta Ambiente svenduto sull’ex Ilva di Taranto, davanti alla Corte d’Assise della città ionica. Al termine del primo grado di giudizio, il 31 maggio scorso, i giudici della Corte hanno condannato Vendola a tre anni e sei mesi di reclusione con l’accusa di concussione aggravata, a fronte della richiesta a 5 anni avanzata dai pubblici ministeri della procura di Taranto, secondo cui avrebbe fatto pressioni sull’ex direttore generale dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale (Arpa) della Puglia. La ragione del passo indietro l’ha ricordata lui stesso nel post: «Come forse saprete, la ragione del mio allontanamento dalla scena pubblica è legata al coinvolgimento, per me drammatico e inatteso, nell’inchiesta sull’Ilva». «In questi anni ho scelto di difendermi nel processo e non dal processo, rinunciando anche a reagire alla campagna politico-mediatica che si è svolta parallelamente allo stesso. Penso che il trasferimento dei processi dai tribunali ai talk show e la conseguente pressione mediatica nuocciano alla giustizia», ha scritto l’ex governatore pugliese. «Penso che la "guerra dei trent’anni" tra potere politico e potere giudiziario abbia fatto male alla nostra democrazia, diventando l’alibi che ha di fatto impedito una seria riforma della politica e della giustizia. Tuttavia io sono stato in disparte, anche perché l’unica ricchezza che ho cumulato nella mia vita è la reputazione, che non è un diploma o un curriculum ma l’immagine e il senso stesso di una vita intera. Per me l’immagine e il senso di una storia di militanza cominciata all’inizio degli anni Settanta del secolo scorso, cioè cinquant’anni fa», ha scritto Vendola nel post. «Io attendevo dalla Corte di Taranto, dopo 8 anni di processo, di essere restituito a questa storia e all’assoluta correttezza delle mie azioni. Così non è stato. Aspetterò l’esito dell’appello con la stessa convinzione», ha fatto sapere. Il suo avvocato, Vincenzo Bruno Muscatiello del foro di Foggia, già dopo la lettura del dispositivo aveva anticipato la volontà di ricorrere in appello una volta depositate le motivazioni (180 giorni). Già in quell'occasione, appresa la condanna a suo carico, Vendola aveva rotto il silenzio: «Mi ribello ad una giustizia che calpesta la verità. È come vivere in un mondo capovolto, dove chi ha operato per il bene di Taranto viene condannato senza l’ombra di una prova. Una mostruosità giuridica avallata da una giuria popolare colpisce noi, quelli che dai Riva non hanno preso mai un soldo, che hanno scoperchiato la fabbrica, che hanno imposto leggi all’avanguardia contro i veleni industriali. Appelleremo questa sentenza, anche perché essa rappresenta l’ennesima prova di una giustizia profondamente malata». Ora qualcosa è cambiato, spiega Vendola, assicurando che questa volta non rinuncerà «a parlare delle cose che mi stanno più a cuore. Sia pure dai margini della scena, vorrei continuare a offrire un punto di vista che deriva da un’inesausta passione politica, che è passione per la vita e il vivente, passione per il mondo e per i diritti», ha scritto Vendola che nel passaggio successivo ha spiegato le ragioni del ritorno. «Credo sia urgente elevare il livello del dibattito pubblico alla luce delle lezioni della pandemia, che disvelano la fragilità dell’esistenza umana, ma anche la follia di un modello di sviluppo incentrato sul dominio del profitto e sull’irresponsabilità ambientale, e che ad oggi vedono come effetto dirompente il moltiplicarsi delle disuguaglianze», ha concluso.