«Insieme al collega Alfonso Sabella (“Il cacciatore di mafiosi” nel titolo di un libro molto documentato che scriverà) ho partecipato ad alcune riunioni nella sala operativa della Questura di Palermo finalizzate alla cattura di Giovanni Brusca. Posso quindi dire di aver seguito molto da vicino l’operazione che pose fine alla sua latitanza. Come Procuratore capo di Palermo ho poi partecipato, con altri magistrati, ai primi interrogatori disposti non appena Brusca manifestò segnali (per altro all’inizio piuttosto ambigui e tortuosi) di disponibilità a collaborare. Ma i ricordi personali con le relative emozioni vorrei lasciarli da parte». A parlare è Gian Carlo Caselli, che ha guidato la Procura della Repubblica di Palermo nel periodo successivo alle stragi del 1992. La scarcerazione di Brusca ha diviso l’opinione pubblica, vittime comprese. In molti, per deprecarla, hanno citato Falcone, vittima di Brusca ma anche sostenitore della legge che oggi gli consente di stare fuori dal carcere. Come giudica, lei che è stato tra i primi a interrogarlo, la sua fuoriuscita dal carcere? È vero, Falcone, vittima di Brusca nella strage di Capaci, è stato uno dei principali sostenitori della legge che oggi consente al suo killer di essere scarcerato. Anzi, poiché la legge che egli chiedeva a gran voce (dall’alto della sua straordinaria competenza quasi la pretendeva) tardava ad essere approvata, ad un certo punto arrivò ad esprimere il sospetto che dietro la “perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo” si nascondesse la voglia di non “far luce sui troppo inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti”. E attenzione: Falcone non parlava mai a vanvera, ma sempre a ragion veduta. Innanzitutto perché il suo capolavoro investigativo giudiziario, il maxi processo che ha segnato la fine del mito dell’invulnerabilità della mafia, lo ha costruito sulla base proprio delle rivelazioni del pentiti Buscetta, Contorno, Calderone e Marino-Mannoia. Poi perché lavorando a stretto contatto con gli Usa sapeva bene che in questo come in moltissimi altri paesi l’uso dei pentiti nella lotta al crimine organizzato è pratica abituale. Con una differenza: che noi li processiamo e li condanniamo, sia pure a pene ridotte, mentre altrove (ad esempio proprio in Usa) i collaboratori possono godere di una completa immunità per i reati commessi. È una vittoria dello Stato, dunque? Se vogliamo chiamare vittoria l’applicazione di una legge dello Stato, ebbene è una vittoria. Ma di vittoria (volendo usare termini un po’ bellicistici) dovremmo piuttosto parlare con riferimento alla legge nel suo complesso. Per il semplice motivo che senza la legge sui pentiti di strada contro la mafia ne avremmo fatta e ne faremmo molto poca. Mi spiego con una metafora persino banale. Essendo fondato su vincoli associativi segreti, il gruppo mafioso può essere paragonato ad una roccia, rispetto alla quale le indagini senza “pentiti” appaiono come un semplice scalpello. Se non si rompe, lo scalpello riesce a scheggiare la superficie esterna della roccia ma non a penetrarci dentro. Invece, le indagini collegate alle ricostruzioni fornite dai collaboratori di giustizia riescono a trasformare lo scalpello in una sorta di carica esplosiva. Una carica posta all’interno della roccia, che la spacca mettendone a nudo la parte più segreta. Insomma, grazie all’apporto dei collaboratori di giustizia i risultati delle indagini possono essere disastrosi per la roccia, cioè per i mafiosi. E questo dato è quello che più dovrebbe interessare nel contesto della lotta alla mafia. E che poi porta a riflettere su una realtà ineludibile. Se allo Stato i pentimenti dei mafiosi sono utili (e lo sono), proprio per questo uno Stato responsabile deve incentivarli. Con misure previste da una legge ad hoc, senza i sotterfugi e le vischiosità che fisiologicamente caratterizzano la collaborazione dei semplici “confidenti”. I familiari delle vittime chiedono un controllo ferreo del suo comportamento fuori dal carcere. Molti pentiti lamentano, però, di essere abbandonati a se stessi. Si può potenziare il servizio centrale di protezione? Dico subito che i familiari delle vittime, vittime a loro volta di un continuo, immenso dolore dell’anima che non lascia respiro, meritano proprio per questo ogni rispetto. Non è pertanto accettabile che qualcuno (come invece è avvenuto), temendo un “approccio accentuatamente vittimo-centrico” ai problemi di mafia, arrivi a sostenere “che occorrerebbe creare un nuovo binario per la rieducazione delle vittime, da affidare alla competenza di eserti psicologici in gradi di aiutare ed elaborare il dolore con strumenti psicologicamente adeguati”. Ci mancherebbe solo questo... Quanto al controllo ferreo di Brusca in libertà, è persino ovvio pretenderlo. Non possiamo assolutamente consentirci altri Antonio Gallea: condannato all'ergastolo come mandante dell'omicidio Livatino, di recente egli ha approfittato dei benefici penitenziari ottenuti per rientrare in posizioni di rilievo nella sua organizzazione criminale (Stidda). Se si ripetesse con Brusca sarebbe uno tsunami. Quanto al servizio di protezione, l’ideale sarebbe qualcosa che si avvicini al “Marshall service” Usa, la cui efficienza persino spietata ho personalmente constatato quando son dovuto andare in Usa per interrogare alcuni pentiti italiani. Ma il nostro Servizio centrale di protezione (pur funzionando bene) ha problemi di bilancio e di un numero molto elevato di persone da proteggere, problemi che in Usa non esistono. Per molti Brusca è un pentito controverso e due anni fa la Cassazione ha respinto la sua richiesta di poter scontare i suoi ultimi anni ai domiciliari, in quanto non avrebbe mostrato il necessario pentimento civile, oltre che processuale. Quanto ha davvero contribuito nella lotta alla mafia la sua collaborazione? Preferisco non rispondere a domande che riguardano il caso specifico di Brusca. In molti ora, gridando allo scandalo, chiedono di cambiare la legge sui pentiti. C’è davvero qualcosa da cambiare? La legge originaria del 1991, che ha funzionato benissimo, è stata modificata nel 2001, secondo me in senso peggiorativo. Non è un caso che da allora i pentiti (che prima erano stati letteralmente una slavina) siano decisamente diminuiti. Per cui, basta così con le modifiche. Abbiamo, come usa dire, già dato... Il vero problema è l’uso corretto dei pentiti. Non si chiedono analisi ai pentiti: si pretendono fatti, ricostruzioni, il racconto di vicende da verificare, da sottoporre al vaglio critico della ricerca di concrete e oggettive conferme. E se tutto funziona secondo le regole (in particolare quella che senza adeguati riscontri le parole non sono prove) il contributo dei collaboratori di giustizia è davvero insostituibile. Quanto sono ancora utili i pentiti nella lotta alle mafie? È vero che oggi si sono sviluppate in misura esponenziale le indagini basate su intercettazioni telefoniche e/o ambientali. Ma dove piazzare le “cimici” , quali siano i posti dove i mafiosi si trovano o si riuniscono, sono proprio i pentiti che possono indicarlo. Di nuovo: si tratta di segreti e senza la password fornita dai pentiti i segreti restano tali. La Consulta ha chiesto al Parlamento di legiferare affinché la collaborazione non sia l’unico criterio per ottenere dei benefici quando si sconta l’ergastolo ostativo, in quanto la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento. Che posizione ha a riguardo? Sull’ergastolo ostativo ho detto e scritto persino troppo. Rispetto ovviamente e senza mere clausole di stile l’orientamento della Consulta, anche se alcuni passaggi della motivazione mi lasciano dei dubbi. In ogni caso prendo atto che è la stessa Corte costituzionale che mette in guardia contro “il rischio di inserirsi in modo inadeguato nell’attuale sistema di contrasto alla criminalità organizzata”. Equivale a riconoscere che bisogna fare molta attenzione a toccare una componente dell’architettura complessiva antimafia, se si vuole evitare che questa crolli tutt’intera. E la Consulta usa proprio questo “rischio” per spiegare il differimento di un anno dell’effettività della sua ordinanza di incostituzionalità in tema di ergastolo ostativo e liberazione condizionale. La Consulta inoltre afferma esplicitamente che il valore della collaborazione va salvaguardato. Rischio di interventi inadeguati e valore del pentimento sono dunque paletti di cui, secondo me, nell’anno a venire il Legislatore non potrà non farsi carico, salvo preferire che restino solo macerie e la soddisfatta allegria dei mafiosi. Non si tratta di giustizialismo manettaro, ma di semplice realismo. Per non finire come il don Ferrante di Manzoni, che discettava sulla peste che non esisteva mentre ne moriva....