Giovanni Brusca non è stato un ergastolano ostativo. I suoi delitti, che appunto si contano oltre il centinaio solo per stare agli omicidi, non hanno dato luogo a un fine pena mai proprio in virtù della sua “collaborazione”. È stato condannato a 30 anni. Essendogli stati riconosciuti i benefici della pena in qualità di collaboratore, scalando gli ultimi 45 giorni di liberazione anticipata, ora è un uomo libero seppur con delle restrizioni per altri quattro anni. Il fine pena mai è incostituzionale Il fine pena mai è incostituzionale, il nostro giornale si batte per questo. Così come si batte contro il discorso della collaborazione della giustizia come elemento imprescindibile per ottenere i benefici. Sono tante le ragioni, ma una è proprio quella espressa dalla Consulta quando ha dichiarato incostituzionale il 4 bis nella parte in cui subordina la collaborazione all’ottenimento del permesso premio. Ovvero che «la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento: la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può esser determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali». Falcone si raccomandava di vagliare con la massima scrupolosità i pentiti Il punto è se la collaborazione con la giustizia è stata dettata da sicuro ravvedimento, oppure utilitaristica. Il pentitismo è fondamentale nella lotta contro la criminalità organizzata. Era stato questo l'intuito di Falcone sul discorso "premiale". Ma sempre lui si è raccomandato di vagliare con la massima scrupolosità i pentiti. Cosa che lui faceva e se scopriva menzogne, li inquisiva per calunnia così come fece con Giuseppe Pellegriti e Angelo Izzo. Le contraddizioni hanno sempre accompagnato i racconti di Brusca Quindi parliamo di Giovanni Brusca, ora libero. Un pentito affidabile? Due anni fa la Cassazione aveva respinto la sua richiesta di poter scontare i suoi ultimi anni ai domiciliari. Secondo i giudici, Brusca non ha mostrato il necessario pentimento civile, oltre che processuale. Non si saprà mai quanta sincerità ci sia nella richiesta di perdono, peraltro tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato. Certe, invece, sono le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi racconti quando è stato sentito come teste in diversi processi. Per il giudice Fontana Brusca fa confusione Interessante leggere le motivazioni del giudice Fontana che assolse gli ex ros Mario Mori e Mauro Obinu per il cosiddetto mancato arresto di Bernardo Provenzano. Fa confusione, colloca la trattativa dopo la strage di Via D’Amelio, poi si ricorda che si è confuso e dice che no, era prima. Ed ecco che così si concilia con la tesi dell’accusa sulla presunta trattativa Stato-mafia. «È perfino superfluo osservare che nella ricostruzione di Brusca emergono molte oscillazioni – scrisse il giudice Mario Fontana – che suggeriscono una certa improvvisazione e mettono in seria crisi la possibilità di fare pieno affidamento sulle indicazioni di dettaglio (soprattutto temporali) da lui fornite». Non lo aveva convinto affatto la giustificazione di Brusca del tanto tempo trascorso che metteva a dura prova la sua memoria e richiedeva una faticosa «rimeditazione della sequenza dei fatti». Anzi non si poteva escludere una «possibile sopravvenuta esigenza di assecondare alcune ipotesi accusatorie determinata dalla volontà di acquisire qualche benemerenza». Insomma, il giudice disse chiaramente che Brusca poteva avere voluto compiacere chi lo interrogava. Per la Gip Petruzzella le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state «suggerite dalle molteplici sollecitazioni» Non solo Fontana, ma pure la Gip Marina Petruzzella che nelle motivazioni dell’assoluzione di primo grado dell’ex ministro Calogero Mannino (assoluzione nella quale viene smontato il teorema trattativa Stato- mafia, confermato in Cassazione), scrisse che le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state «suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogativi, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami». Poco dopo il suo arresto fece finta di collaborare Ma non è la prima volta. In realtà bisogna ricordare che la patente di collaboratore, quindi con la fine del 41 bis e possibilità di benefici, l’acquisì nel 2000. Pochi giorni dopo il suo arresto, avvenuto il 20 maggio del 1996 in una villetta sul litorale di Agrigento, Giovanni Brusca aveva attuato un piano diabolico: fare finta di collaborare e propinare le sue "polpette avvelenate" a magistrati e investigatori. E quando nell'agosto del '96 venne fuori la notizia che Brusca si era pentito, scoppiarono subito polemiche e veleni. Fu il suo ex avvocato a mettere le mani avanti sostenendo in un'intervista che Brusca gli aveva raccontato i suoi rapporti "fra mafia e politica" e di un incontro con un'"alta personalità dello Stato" per organizzare un complotto contro Giulio Andreotti. Ma non è risultato vero nulla. Brusca aveva fatto confidenze inquinate al suo legale e poi, interrogato dai magistrati di Palermo e di Caltanissetta, il boss di San Giuseppe Jato aveva confermato che il racconto era tutto falso. Più precisamente, il 28 agosto 1996 Brusca venne interrogato dalle tre Procure e gli fu espressamente richiesto di chiarire il significato delle affermazioni dell'avvocato. In quella occasione, di fronte all'esplicita sollecitazione da parte di tutte e tre le Procure, dichiarò che aveva elaborato un piano per buttare fango sull'onorevole Luciano Violante, piano che egli poi abbandonò. Fu smascherato dal fratello Enzo che si era pentito sul serio E non finì li. Giovanni Brusca allora fece molte ammissioni raccontò mezze verità, poi però fu smascherato dal fratello Enzo che si era pentito sul serio e aveva rivelato il piano di Giovanni, quello di "depistare". Dopo essere stato indagato per calunnia e messo alle strette, Giovanni Brusca, cominciò a dire un po’ di verità. Da quel momento fu ritenuto attendibile dai magistrati e per il suo contributo alla lotta alla mafia, cominciò a ottenere anche sconti di pena. Effettivamente le sue dichiarazioni per il processo sulla strage di Capaci, nel quale ha confessato la sua partecipazione attiva per l’esecuzione, si rivelarono importanti. L'8 febbraio 2000, il giorno prima in cui veniva perfezionata la nomina della commissione per i programmi di protezione, la procura della Repubblica di Caltanissetta ha inviato una nota nella quale confermava ulteriormente la rilevanza della collaborazione di Brusca, con particolare riguardo al processo di secondo grado. È rimasto l'unico testimone chiave del processo trattativa Ma Brusca, da tempo, è diventato fondamentale per la pubblica accusa di Palermo, specie dopo che sono state smascherate le panzane di Massimo Ciancimino, il figlio di don Vito. E pensare che il processo trattativa, senza Ciancimino jr., non sarebbe mai iniziato. È rimasto Giovanni Brusca, però, a reggere il peso del ruolo di testimone chiave. Anche per questo, nella memoria depositata dalla procura generale di Palermo, si bacchettano le giudici della sentenza Mannino che hanno, con carte in mano, dichiarato inattendibile Brusca. Nonostante ciò, la sentenza trattativa di primo grado, non si sa per quale legge della dinamica, rende carta straccia tutte le altre. Resta il fatto che la svolta per Giovanni Brusca è arrivata quando ha cominciato ad accusare gli ex Ros. Nel processo trattativa medesimo la sua posizione è stata prescritta, Mori e De Donno condannati. Ora esce, mentre forse rischiano di entrare dentro coloro che hanno arrestato il suo ex capo Totò Riina.