1. I numeri sono eloquenti ed impietosi. Nelle Corti di appello c’è un buco nero, un ingorgo inestricabile. Nel 2019 i processi pendenti erano 260.946. E ogni anno i giudici di secondo grado riescono a definirne meno della metà. Con il risultato che in Italia il giudizio di appello ha una durata media di 851 giorni di contro ad una media europea di 155. Sono questi i dati del Rapporto CEPEJ che la Commissione nominata dalla Ministra Cartabia e presieduta da Giorgio Lattanzi richiama per rendere chiaro che, se non si interviene sul nodo delle impugnazioni, la promessa, scritta in Costituzione, della ragionevole durata del processo penale non può essere mantenuta. Per realizzare questo obiettivo - che tutti a parole dicono di voler perseguire - occorrerà vincere molte ipocrisie e sfidare le vestali degli opposti dogmatismi presenti tra le forze politiche e nel corpo della magistratura e dell’avvocatura. Parliamo di un sapiente lavoro di rasoio e di bisturi che solo una politica coraggiosa può attuare. Anche compiendo scelte dolorose ma indispensabili, dettate dalla consapevolezza che il cattivo impiego della risorsa - scarsa e costosa - del processo penale si scarica inevitabilmente, con effetti nefasti, sui tempi processuali. Esattamente come avviene in altri servizi essenziali – ad es. la sanità pubblica – nei quali l’incapacità di individuare e far valere ragionevoli priorità genera interminabili liste di attesa, che finiscono con il negare nei fatti un’efficace tutela del diritto alla salute.

2. Il primo nodo da sciogliere è quello delle impugnazioni del pubblico ministero. La Commissione propone di negare alla parte pubblica la possibilità di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento. La logica che la guida è ineccepibile. Se si può emettere una sentenza di condanna solo quando la colpevolezza dell’imputato è provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”, il giudice di primo grado che assolve ha espresso la certezza dell’innocenza o almeno ha nutrito un dubbio ragionevole sulla responsabilità dell’imputato ( si badi: un dubbio ragionevole, della legge n. 46 del 2006, la c. d. legge Pecorella, che aveva già escluso l’appello del pm contro le sentenze di assoluzione. cioè consistente, significativo, non un dubbio meramente ipotetico o cervellotico). E poiché il giudice è, fino a prova contraria, un essere ragionevole - o un collegio di persone ragionevoli - il suo dubbio non può essere superato solo perché il giudice “che viene dopo”, cioè il giudice di appello, si dichiara di diverso avviso, optando per la colpevolezza. Occorrerà molto di più. Che sia dimostrata l’illogicità della sentenza di assoluzione o che essa risulti frutto di una violazione della legge penale sostanziale o processuale ( come accade, ad esempio, quando al pubblico ministero sia stata ingiustificatamente negata una prova decisiva). Ma questo accertamento è compito proprio della Corte di cassazione. E solo ad essa – propone la Commissione potrà rivolgersi il pubblico ministero che intenda impugnare una pronuncia di assoluzione del giudice di primo grado, chiedendo ed ottenendo, se le sue censure verranno accolte, l’annullamento con rinvio della sentenza e la celebrazione di un nuovo processo. È il ragionamento che molti – compreso chi scrive – avevano svolto per sostenere la conformità alla costituzione Allora i sostenitori di questa tesi vennero smentiti dalla Corte costituzionale che , con le sentenze n. 26 del 2007 e 85 del 2008, dichiarò l’illegittimità della scelta legislativa in nome della parità delle parti nel processo.

Oggi, però, la giurisprudenza del giudice delle leggi ha fatto ammenda del formalismo che ispirò quelle decisioni , prendendo atto della profonda diversità esistente tra le parti del processo penale e della differente valenza costituzionale del potere di impugnazione della parte pubblica ( non coperto dal principio di obbligatorietà dell’azione penale) e dell’imputato ( diretta espressione del diritto di difesa). Non c’è quindi da attendersi che l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte del pm incorra di nuovo in una declaratoria di incostituzionalità. 3. Sin qui il “rasoio” della logica giuridica e della coerenza sistematica . Un rasoio più efficace ed incisivo di quanto possa sembrare a prima vista. Se è vero, infatti, che gli appelli del pm avverso i proscioglimenti rappresentano solo una minima percentuale delle impugnazioni non altrettanto può dirsi dei numerosi appelli della parte civile avverso sentenze di proscioglimento che, sulla base dello stesso itinerario logico seguito per il pm, risultano anch’essi preclusi. Comunque pensa e scrive la Commissione - se si vuole davvero garantire un processo di durata accettabile il rasoio non basta e occorre anche incidere sulle impugnazioni di entrambe le parti con un altro strumento : il “bisturi” della ragion pratica. Ed il bisturi taglia molto in profondità.

Da un lato il pubblico ministero non potrà appellare le sentenze di condanna: una soluzione che, nella sua radicalità, appare francamente eccessiva e che potrebbe essere utilmente sostituita da una rigorosa selezione normativa delle ipotesi di appello del pm. Dall’altro lato, la facoltà di proporre appello è preclusa anche all’imputato a fronte di sentenze di condanna ritenute non particolarmente afflittive ( le condanne a una pena pecuniaria o a pene detentive sostituite con il lavoro di pubblica utilità). Infine – ed è questa la vera scelta strategica della Commissione - si suggerisce di ridisegnare la fisionomia del giudizio di appello, trasformandolo da secondo giudizio di merito in “strumento di controllo a critica vincolata della pronuncia di primo grado”. Il tecnicismo della formula racchiude un contenuto semplice e lineare: l’appellante non potrà limitarsi a sollecitare una nuova decisione sui punti della sentenza impugnata indicati nei suoi motivi di impugnazione mentre il compito del giudice consisterà nel verificare la fondatezza o meno degli “specifici” e tassativi motivi di impugnazione addotti. Con il corollario che sui motivi formulati in termini generici si abbatterà la scure severa dell’inammissibilità dell’appello.

Già questo primo rapido schizzo del “sistema” delineato dalla Commissione fa emergere più di interrogativo. Non è troppo ristretto il nuovo perimetro dell’appello? Il rito non è troppo fondato sulle carte? Non ne deriva un eccessivo depotenziamento del contraddittorio orale, subordinato alla richiesta dell’imputato o del difensore ? E così via. Obiezioni puntuali che dovranno però misurarsi con la direzione di marcia indicata dalla Commissione: un pieno recupero della centralità dei giudizio di primo grado, se si vuole la sua drammatizzazione, coerente con la struttura del processo accusatorio, cui si accompagna una relativa marginalizzazione dell’appello. Parafrasando la folgorante battuta finale, riferita alla stampa, del film “L’ultima minaccia” : “E’ l’accusatorio, bellezza !”.