Per Cesare Mirabelli, giurista e presidente emerito della Corte costituzionale, «l’appello è una garanzia forte per l’imputato»: non condivide dunque la parte della proposta sul processo penale elaborata dalla commissione guidata da Giorgio Lattanzi in cui si ipotizza, per il giudizio di secondo grado, una sorta di vaglio preliminare di ammissibilità dei motivi.

Presidente, che giudizio dà complessivamente della proposta di riforma?

Positivo, si coglie l’idea di semplificazione e di ricerca di maggiore efficienza. Vedremo poi l’implementazione di queste indicazioni.

Quindi non condivide il pensiero di Nordio per cui la riforma sarebbe troppo timida, in quanto non tocca nodi centrali come la separazione delle carriere?

Ogni riforma può essere più incisiva. Ci sono aspetti di forte carattere politico e altri più tecnici. Ho l’impressione che la commissione si sia mossa più su questo secondo versante.

In un altro punto della relazione si ipotizza di modificare la regola di giudizio per la richiesta di archiviazione, prevedendo che il pm chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini non sono tali da determinare la condanna.

In generale la fase delle indagini è quella clamorosamente presente nell’attenzione dell’opinione pubblica: quanti conoscono i nomi dei giudici che emettono le sentenze e quanti invece quelli dei pm che avviano l’iniziativa penale? In merito alla sua domanda, sono d’accordo con la proposta perché occorre una deflazione processuale, evitando di intasare il sistema con azioni penali non sostenute da elementi che ci si attende possano ragionevolmente portare ad una condanna.

Torna anche il tema dell’obbligatorietà dell’azione penale: “Le valutazioni di politica criminale non possono che essere affidate al Parlamento, si prevede che sia tale organo a stabilire, periodicamente ( al legislatore delegato l’onere di indicare il periodo), i criteri generali necessari a garantire efficacia e uniformità nell’esercizio dell’azione penale e nella trattazione dei processi, facendo riferimento anche ad un’apposita relazione del Csm”.

L’obbligatorietà dell’azione penale apre in realtà ad un largo margine di discrezionalità nella selezione o nell’impegno nelle indagini da effettuare. Non può divenire lo strumento che giustifica non già l’obbligo di indagini per verificare la notizia di reato, bensì la ricerca a scandaglio di possibili reati, che è prassi purtroppo diffusa. Questo è un elemento distorsivo. Venendo al merito della proposta, rilevo anzitutto che non può essere il Csm, le cui funzioni sono quelle stabilite dalla Costituzione, a decidere i criteri per l’esercizio dell’azione penale. Deve essere solo il Parlamento, attraverso una legge che determini i criteri generali e uniformi in maniera permanente, e non con un atto di indirizzo alla giurisdizione, che potrebbe essere improprio. Sui criteri: va evitata una sorta di depenalizzazione implicita, che di fatto escluda o sospenda la punibilità di alcuni tipi di reato. Non ci può essere la rinuncia dello Stato a perseguire condotte che ha qualificato come reato. Sarebbe piuttosto opportuna una depenalizzazione sostanziale. Non ci può essere neanche una diversità di criteri per i diversi territori. Di fatto alcuni reati verrebbero perseguiti o meno a seconda del luogo dove sono stati commessi e sarebbe leso il principio di eguaglianza. I criteri potrebbero riguardare l’ordine di trattazione dei processi, trascurando sin dalla fase iniziale quelli che prevedibilmente si concluderebbero con una pronuncia di prescrizione.

Un altro nodo intricato riguarda la riforma dell’appello: si va verso una profonda e organica riforma del sistema delle impugnazioni.

L’appello in generale è una garanzia. Io sono d’accordo sul fatto che si possa prevedere una limitazione all’impugnazione del pm qualora la sua domanda di punizione sia stata pur parzialmente accolta. Un appello solo per rideterminare la pena al rialzo o per contestare la derubricazione del reato mi sembrerebbe fuori luogo. Il nodo però riguarda l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Se si considera che vi possa essere condanna solo quando la colpevolezza dell’imputato è provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”, si dovrebbe ritenere che, se il giudice di primo grado ha assolto, quantomeno c’è un dubbio ragionevole sulla responsabilità dell’imputato. Tuttavia l’esperienza concreta ci mostra che diverse volte si arriva alla condanna in virtù di un ribaltamento del giudizio in appello, o addirittura dopo la decisione della Cassazione. Sarebbe opportuno avere una analisi dei dati: conoscere il numero delle impugnazioni dei pm nei confronti di sentenze di assoluzione e il numero di quelle che hanno trovato soddisfazione in appello. Non è un elemento decisivo ma può far capire quanto occorra una autovalutazione da parte dei pm per impugnare solamente quando vi siano le esigenze che portino ad un giudizio diverso. Direi che in generale occorra una riflessione più approfondita per determinare i motivi di appello per il pm. Mi chiedo se possa essere equilibrata una soluzione che limiti, con una operazione chirurgica, i motivi per i quali il pm può proporre appello.

Condivide i timori dei penalisti secondo cui la direzione è quella di introdurre anche per il giudizio di secondo grado un principio di inammissibilità preventivamente valutato dal giudice di appello?

Sarei favorevole a mantenere un’ampia possibilità di appello per la difesa. L’appello è una garanzia forte per l’imputato. Basti pensare a quante sentenze di condanna vengono poi ribaltate in appello. Poi, per quanto riguarda l’equilibrio tra le parti nel processo, occorre avere una visione complessiva e tener presente che esiste uno squilibrio tra la possenza dell’accusa per i mezzi dei quali dispone e la difesa, che spesso non ne ha proprio.

Diciamo che la limitazione di appellabilità per il pm è stata controbilanciata, nella proposta Lattanzi, dai mezzi più limitati di cui gode la difesa.

Con il rischio però che rendiamo la soluzione congegnata non adeguata né per il pm né per la difesa.

Uno degli aspetti più importanti riguarda la prescrizione. Secondo fra le due proposte — “recupero ponderato” della legge Orlando o interruzione del decorso della prescrizione del reato dopo l’esercizio dell’azione penale, con estinzione del processo in caso di durata eccessiva di una sua singola fase — qual è più fattibile?

La prescrizione è una regola di civiltà. Non si può rimanere imputato a vita, e una pena inflitta dopo moltissimi anni non avrebbe la finalità rieducativa che la Costituzione prevede. E poi non dimentichiamo che per alcuni reati di particolare gravità i tempi per arrivare alla prescrizione sono lunghissimi. A me pare che sia più lineare la prima proposta, mentre la seconda trasferisce sul piano processuale quello è che l’effetto sostanziale della prescrizione.

L’ex ministro Bonafede sembra non voler cedere sulla prescrizione. L’attuale guardasigilli, in questo clima politico, riuscirà ad abbattere le ritrosie Credo che debba prevalere la complessiva ragionevolezza e occorra abbandonare posizioni “non negoziabili”. Bisogna innanzitutto valutare cosa risponda meglio ai principi costituzionali e poi cosa garantisce una efficacia del processo di cui abbiamo necessità ed urgenza. Mi pare quindi che la soluzione prospettata dalla commissione sia equilibrata e ragionevole.

Si torna a parlare di valutazione professionale dei magistrati: il sistema andrebbe riformato?

In tutte le amministrazioni le valutazioni di professionalità sono assai scarse; esiste un vizio diffuso. Si potrebbe avere nel settore giustizia una migliore valutazione che tenga conto di dati sintomatici quantitativi e qualitativi. I primi potrebbero riguardare la laboriosità ponderata in base al peso dei procedimenti che si seguono; i secondi potrebbero essere espressi in parte da quante decisioni sono riformate in ulteriori gradi di giudizio o da quante iniziative penali sono smentite in giudizio.