«Il livello di civiltà di una società è dato dalla misura con cui è in grado di assicurare a ciascuno il diritto di essere se stessi». Ma che significa davvero essere se stessi? Nelle mani di Guido Alpa il concetto di identità diventa un rebus da sciogliere con le armi del diritto. Armi che il giurista ingaggia senza fallire l’obiettivo. E il bersaglio siamo noi, che a sera caliamo la maschera per riconoscerci tra le pagine del suo libro. Sì, perché il professor Alpa - avvocato, accademico, già presidente del Consiglio Nazionale Forense - ha dato alle stampe un saggio dal titolo che commuove e consola: “Il diritto di essere se stessi” (La nave di Teseo, collana Krisis, 336 pagine). Ma parlare di saggio forse è riduttivo. Questo libro è il manifesto mai scritto dei reietti. Di chi vive ai margini, di chi riassume su di sé la riprovazione sociale. Per costoro, i diversi, il diritto di esistere, cioè di avere diritti, «è una meta», un traguardo da conquistare a fatica.Ogni società, infatti, «ha avuto, e ha tuttora, i suoi diversi, cioè i suoi emarginati». E si badi a non considerare soltanto le minoranze, i gruppi sociali che si riconoscono in una identità collettiva. Il diverso può essere discriminato anche nella sua individualità, all’interno del suo stesso gruppo sociale. Sotto l’ombrello di Alpa trovano riparo i grandi esclusi, che cambiano come cambiano i tempi. Ebrei, omosessuali, donne, poveri, stranieri, immigrati, disabili e infermi...sono stati via via discriminati per “ragioni” fondate su razza, sesso, etnia, credenze religiose e politiche. E per le stesse ragioni sono stati via via tutelati con gli strumenti del diritto. Ma ecco l’intuizione geniale, che lascia il lettore sgomento. «Il diritto costruisce intorno alla persona una sorta di gabbia in cui ciascuno è costretto, disciplinando in modo quasi ossessivo come la persona si chiama, quale sesso riveste, a quale collettività appartiene, il suo stato di libertà o di servitù, se deve essere classificato come povero, analfabeta, cittadino o straniero ». «In fin dei conti - ammette il giurista - l’identità non è né una fotografia né un punto d’arrivo: l’identità è uno strumento, che di volta in volta può assolvere ad una funzione liberatoria o persecutoria». Certo, nei sistemi autenticamente democratici gli stigmi e le privazioni della libertà - contemperata tra l’esigenza del singolo e della collettività - sono man mano cessati. La lotta alle discriminazioni si è affinata, le garanzie si sono moltiplicate. E Alpa lo spiega bene, in questo compendio in cui diritto, storia e filosofia corrono insieme in una prospettiva dinamica, rivolta all’attualità. Ma abbiamo ancora i nostri diversi. E il dilemma resta insoluto. Resta cioè la domanda delle domande: chi ci è dato davvero essere in un sistema ordinato, composto di regole e leggi. L’identità, un "io" sfaccettato «Nell’immaginario dei giuristi l’identità attraversa i secoli in un continuum di regole, teorie, concetti », spiega Alpa. Per indagare il presente bisogna tornare indietro, fino al diritto romano. Già nel II secolo d.C. il celebre giurista Gaio distingueva nelle sue “Istituzioni” tra personae, res, actiones. La persona si classificava per status, per ciò che possedeva. Al punto che gli schiavi erano ridotti a cosa. Nel corso dei secoli segni e simboli hanno sempre distinto l’individuo e i gruppi sociali. E ai segni corrispondono privilegi, o condizioni di subordinazione. Se poi «si considerano i fattori di discriminazione - scrive Alpa - si nota subito che essi giungono a noi da percorsi assai diversi: la discriminazione della donna risale ad epoche primordiali, la discriminazione degli ebrei alla distruzione del tempo di Gerusalemme e alla diaspora, la discriminazione per l’orientamento sessuale prende diversi nomi e diversi significati nel Medioevo e nei secoli successivi; la discriminazione per condizioni sociali perdura fino al Novecento, e così via». Ma i segni distintivi, imposti o assunti, sono mere costruzioni, dati esteriori utilizzati per riconoscere l’altro o riconoscersi. Bisogna infatti considerare l’identità in una dimensione triplice: ciò che una persona pensa di sé, come vuole essere rappresentata, e come la vedono gli altri. Alla percezione che un individuo ha di sé, si sommano poi gli attributi: a partire dal nome e cognome, che determinano l’identità anagrafica. Tra gli innumerevoli spunti che la pagina ci offre, diremmo che l’attualità della riflessione di Alpa si riassume attorno alla distinzione che egli opera tra identità biologica, sessuale, e di genere. Un tema che oggi tanto fa discutere, in relazione a quell’insieme di norme che definiamo biodiritto. «Possiamo dunque liberarci dell’identità, visto che essa nel corso dei secoli è servita a soffocare la persona piuttosto che non ad esaltarne le qualità? ». Dal punto di vista giuridico, risponde Alpa, la risposta è no. «Fintanto che una società è costruita sui ruoli - e non potrebbe essere diversamente - l’uomo è destinato ad essere la persona di cui parlava Gaio, e ad essere identificato nelle tre forme che si sono descritte: per quel che sente di essere, per quel che vuole apparire, per quel che la società gli impone di essere». La rivoluzione Costituzionale «La persona è ancora la veste giuridica dell’uomo, ma il suo significato si è arricchito con la copertura costituzionale». Ancora una volta bisogna affidarsi alle parole del libro per spiegare come l’individuo si sia fatto persona. La nostra Carta riserva alla tutela della persona molte norme che si dispiegano nell’ordinamento giuridico italiano nel suo complesso. Più in generale, le costituzioni contemporanee, insieme con la Carta dei diritti dell’Unione Europea, la Convenzione europa dei diritti umani e la Dichiarazione universali dei diritti umani dell’Onu hanno contribuito a fondare il concetto moderno di persona. E insieme quello di diritti umani, secondo un crescendo di garanzie che si sono via via accomulate sul soggetto. Il punto di svolta è relativamente recente. Dalla seconda metà dell’Ottocento, la scienza tedesca «si incarica di sciogliere gli interrogativi » relativi all’uomo come portatore di diritti, secondo un itinerario che porta dal concetto di individuo, «considerato come una monade anonima all’interno di una collettività», a quello di soggetto di diritto, «titolare di alcuni diritti essenziali», fino alla persona, «intesa come l’individuo dotato di garanzie e di riconoscimenti, di prerogative e di diritti fondamentali, insopprimibili, imprescrittibili, inalienabili». «Riconoscere è un dio» Per concludere torniamo all’inizio. Cioè al paradosso insopprimibile che Alpa denuncia in apertura: per tutelare il diverso, il diritto «ne pretende il disvelamento». Ha bisogno quindi di riconoscerlo, in qualche modo di discriminarlo per proteggerlo. A chi scrive, più avvezzo alla letteratura che al diritto, viene in mente un altro testo del filologo e critico letterario Piero Boitani dal titolo “Riconoscere è un dio”. L’agnizione, nel suo senso classico, è un topos ricorrente nella narrativa di ogni epoca, e indica proprio l’improvviso riconoscimento di un personaggio, normalmente al termine di una serie di peripezie. «L’Odissea - scrive Boitani - è il primo e piú grande universo del riconoscimento nella nostra letteratura. Il passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, che tocca un uomo nella carne, è una scena ricorrente, e dunque un tema che in ultima analisi afferma la fede originaria nella propria identità, nella coincidenza dell’apparire e dell’essere». Magari anche noi, peregrinando sul tracciato di Ulisse, potremmo scoprirci “multiformi”, e liberarci del vincolo dell’identità costruita.