Del senatore Luigi Zanda, già capogruppo del Pd e tesoriere del partito, è nota come leggendaria la riservatezza. Cui è stato allenato in famiglia dal padre, il mitico prefetto Efisio Zanda Loy, e in politica da Francesco Cossiga. Di cui fu consigliere, portavoce, amico, confidente, quasi un secondo figlio sia a Palazzo Chigi sia al Viminale, peraltro nei lunghi, terribili 55 giorni della prigionia di Aldo Moro, sequestrato dalle brigate rosse la mattina del 16 marzo 1978 fra il sangue della scorta, decimata come in un mattatoio, e ucciso pure lui il 9 maggio, mentre stavano maturando le condizioni per cercare di liberarlo con le buone o le cattive maniere.

Non poteva pertanto che fare notizia la decisione presa dal senatore di parlare in questi giorni a Repubblica di quel sequestro, e di altri eventi successivi, come l’attentato a Papa a Roma e quello ad Enrico Berlinguer in Bulgaria, legati da un filo rosso quale può essere considerato il terrorismo nazionale e internazionale di quei tempi. Proprio per effetto di quel filo, per venire a capo del quale giustamente Zanda ha scommesso in qualche modo sugli storici e sui ricercatori degli archivi ancora segreti, si sono levate contro l’intervista voci perplesse e critiche: di chi si aspettava qualcosa di più specifico, magari col sospetto che il senatore abbia voluto trattenere per sé chissà cosa e chissà quanto per coprire chissà quali responsabilità: «Eh no, senatore Zanda, noi non ci stiamo», gli ha gridato dal Fatto Quotidiano l’ex senatrice Sandra Bonsanti, aggiungendo: «Non è che si possa chiudere i conti con il passato senza mai parlare di responsabilità, rinviando la verità solo agli archivi internaziona-li…… come se le cose in Italia fossero avvenute solo sotto l’influsso magico e mefitico di uno scontro internazionale perenne. La Guerra Fredda è stata terribile, certo, dentro quel quadro si sono dispiegate dinamiche intrigate e ancora in parte oscure, ma stiamo all’Italia e all’assassinio di Aldo Moro: c’era una classe dirigente che ha fatto o non ha fatto delle scelte». Sulle quali, sempre secondo Sandra Bonsanti, ma par di capire anche per un collega del giornale La Verità, non si può calare un velo evocando «una fantomatica pista sovietica».

Trovo personalmente queste reazioni alquanto esagerate e ingenerose di fronte allo strappo fatto da Zanda alla sua - ripeto- leggendaria riservatezza parlando, per esempio, proprio della vicenda sulla quale più lo ha tallonato, diciamo così, la mia amica Sandra: la vicenda Moro.

A quest’ultimo proposito, vorrei riproporvi un passaggio della lunga intervista di Zanda a Repubblica rispondendo alla domanda su cosa ricordasse di quel sequestro: «Appresi la notizia dell’attentato, ancora molto confusa, appena varcata la soglia del Viminale. Dopo un paio d’ore, verso le 11, mi mandò a chiamare Cossiga, che era già stato in via Fani e dal presidente del Consiglio. “Da questo momento dimenticati della mia vita politica perché politicamente sono finito”. Poi mi avrebbe affidato un documento da conservare in cassaforte. Era la lettera di dimissioni da ministro del’Interno, ma su alcuni fogli a parte ne variò l’incipit: nel caso in cui Moro fosse stato ucciso, liberato, liberato ma ferito nello scontro finale». Quel “poi” sembra significare non qualche momento o ora successiva al primo incontro con Cossiga reduce da via Fani e dall’ufficio del presidente del Consiglio Giulio Andreotti, a Palazzo Chigi. Mi sembra riferirsi, piuttosto, ad eventi anche di parecchio successivi, quando ancora Moro era in vita e, per quanti errori, disguidi e altro si fossero verificati nelle indagini e nelle ricerche, si pensava ancora possibile quello che Zanda ha definito “scontro finale”. Che altro non poteva essere evidentemente se non l’assalto alla prigione di Moro che, secondo recentissime rivelazioni dell’allora colonnello dei Carabinieri Antonio Cornacchia, il generale dell’Arma Carlo Alberto dalla Chiesa aveva individuato attendendo inutilmente l’autorizzazione all’assalto con un gruppo specializzato di una trentina di paracadutisti alloggiati in via Aurelia. Di quella rilevazione, riferita su queste colonne, Stefano Andreotti, figlio del compianto presidente del Consiglio chiamato in causa da Cornacchia, si è con me doluto, in comprensibile difesa della memoria del padre, chiedendosi e chiedendomi perché mai l’allora capo dell’ufficio investigativo dei Carabinieri a Roma non avesse parlato quando l’ormai ex capo del governo era ancora in vita, e in grado quindi di replicargli.

Ora, Andreotti o non Andreotti, Cornacchia o non Cornacchia, dall’onesto racconto di Zanda si può dedurre che uno “scontro finale” ad un certo punto della vicenda era effettivamente diventato, o quanto meno, apparso possibile. Vi sembra poco? A me no, per niente. E sono grato al senatore Zanda per avermi dato quanto meno un concreto motivo di riflessione. Che sarebbe ancora più utile e produttivo se condiviso, adoperato e quant’altro dai tanti - forse troppi, a questo punto- che scrivono e si occupano della peggiore tragedia della politica italiana.