La chiave di Intercettopoli sta tutta nell’articolo 268 del codice di procedura penale: come le operazioni di captazione attraverso il trojan noleggiato alla Guardia di Finanza dalla società Rcs siano state autorizzate ed eseguite. E, cioè, se quel server intermedio, scoperto nei locali della Procura di Napoli dopo l’ammissione dell’ingegnere Duilio Bianchi davanti ai pm di Firenze, sia o meno “coperto” da un opportuno decreto d’urgenza, che consentirebbe la modifica dell’architettura utilizzata dalla società per far arrivare i dati captati dal telefono dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara alla Guardia di Finanza di Roma, luogo autorizzato alla ricezione delle informazioni. Allo stato attuale tale decreto risulta non esserci e ciò, dunque, rende quelle captazioni potenzialmente inutilizzabili. Con il conseguente effetto a cascata su tutte le operazioni effettuate allo stesso modo, centinaia, in via ipotetica, dato che Rcs ha fornito trojan a tutte le procure d’Italia.Per avere delle risposte toccherà attendere l’esito delle ispezioni disposte dalle procure di Firenze e Napoli sui locali e sugli strumenti della società milanese, che dovrebbero arrivare il 27 maggio, quando a Perugia, sede del processo a Palamara, verranno ascoltati gli uomini del reparto contro i crimini informatici della Polizia postale impiegati nell’indagine. Ma nel frattempo, la vicenda pone una serie di questioni spinose. Non solo in termini di attualità - che fine farà il processo del secolo al sistema delle correnti in magistratura? E che fine faranno tutti gli altri? -, ma anche in termini culturali. Un aspetto fondamentale, secondo Domenico Ciruzzi, ex vicepresidente dell’Unione Camere penali, impegnato in processi di notevole clamore, come quello che vedeva imputato, tra gli altri, Enzo Tortora e il processo per la morte di Marco Vannini. «Aspettiamo gli esiti di queste indagini, che sono doverose - spiega al Dubbio -. Ma è evidente che per troppo tempo c’è stata una distrazione nei confronti delle regole previste dagli articoli 268 e 270 del codice di procedura penale, regole le cui interferenze sfuggono soprattutto al giudicante». Il primo articolo, come già detto, riguarda l’esecuzione delle operazioni. Il secondo, invece, l’utilizzazione delle intercettazioni in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, insomma, le intercettazioni a strascico. «Bisognerebbe potenziare la figura del giudicante, perché solo un giudicante colto può carpire tutti i mosaici di interferenza che investono il processo - sottolinea -. Sulle intercettazioni a strascico, le Sezioni Unite hanno dovuto spiegare che sono inutilizzabili ed è gravissimo che si sia dovuti arrivare a questo per capirlo, perché ciò era già stabilito dalle norme. Questa forma di prodotto lordo cui tendono i giudici nel tentativo di raggiungere il risultato con la non dispersione di prove anche illegali, questo sostanzialismo inaccettabile, ha prodotto condanne che si sono basate su divieti previsti dal codice». Insomma, c’è stata una sottovalutazione di alcune regole, spesso ritenute «orpelli formalistici». E ciò senza capire che, invece, utilizzare elementi raccolti con metodi formalmente non corretti rappresenta una «fonte di inquinamento». Se si pesca a strascico, prendendo alcune parole che possono sembrare sospette - continua Ciruzzi -, si possono creare equivoci terrificanti, oltre che violare l’articolo 15 della Costituzione». Una cultura delle regole «calpestata da migliaia di giudicanti, escluse punte di eccellenza, attraverso una visione iper sostanzialistica del processo e delle norme. Come la cambiamo la cultura del Paese se il giudice, il migliore, è il primo a ritenere un orpello l’articolo 270? Chissà quante volte questi decreti motivati non ci sono stati e quante volte, per raggiungere il risultato, si sia disattesa questa regola». Ferma restando la presunzione di innocenza anche nei confronti di Rcs e la doverosa attesa degli esiti investigativi, ciò che emerge, secondo il penalista, è la «sottovalutazione di norme che rappresentano presidi ineludibili di corretta acquisizione della prova». E se l’intercettazione non è avvenuta nei termini di regolarità voluta dal legislatore, aggiunge, «in nome di un risultato sostanzialistico, a scapito di forme che sono tutele importantissime, è certo che ci saranno profili di inutilizzabilità e, a cascata, ci potrebbero essere anche delle revisioni, paradossalmente. Per questo credo che l’indagine non vada sottovalutata così come abbiamo sottovalutato il 270 per circa un ventennio. Non si tratta di vessilli che non creano danni, si tratta di norme processuali sostanziali di salvaguardia delle tutele». Sui trojan, poi, c’è ancora da ragionare in termini di regolamentazione. «Trovo che sia un mezzo invasivo il cui utilizzo non dovrebbe essere consentito, se non in casi veramente eccezionali e straordinari - continua Ciruzzi -. Io sono contrario a queste intrusioni spesso incontrollabili. Ora c’è questa indagine, ma quante ce ne sarebbero potute essere in passato? Questo settore è stato sottovalutato. È evidente che c’è un rischio di manipolazione dei dati, per questo si è voluto che i server fossero installati nelle Procure della Repubblica. Ma credo che finora non ci sia stata una grandissima attenzione. Non perché si sia voluta favorire la manipolazione, ma in ragione di questa cultura poco attenta a snodi fondamentali del codice. È arrivato il momento di aprire un dibattito».