Il concetto – nel messaggio del Presidente del Senato – è chiaro: il linguaggio delle istituzioni è fondamentale per la vita democratica, perché sta alla base del rapporto tra autorità e cittadini. «Un tema centrale dunque e non più eludibile». Insomma: le parole sono importanti, come diceva Nanni Moretti. Specie quelle delle norme e degli atti.

Spesso è un episodio della vita di tutti i giorni a farci riflettere sulle parole: e così è successo a me. Nel diritto urbanistico il termine in voga è “rigenerazione”. In realtà, non ha una precisa definizione o disciplina: è una specie di parola d’ordine cui ricondurre vari interventi. Fa pensare non alla “generazione” di nuovi edifici – che si capisce subito che consumerebbero suolo – ma a far “rivivere” ciò che già c’è.

Poi un giorno, davanti alla vetrina di una farmacia, mia moglie si è fermata a guardare i manifesti dei cosmetici. Li ho guardati, e ho scoperto che “rigenerazione” va alla grande nella cosmesi, insieme ad altre parole che sono perfette per l’urbanistica ( da ridensificazione a risanamento conservativo). Il collegamento linguistico tra urbanistica e cosmetici non me l’aspettavo. E forse il concetto di “rigenerazione” ha successo anche perché è la parola che “funziona”. Ha una potenza evocativa, come un “alone” più ampio della definizione che deve dare. Insomma, le norme sono fatte di parole, e alcune parole fanno scattare meccanismi più intensi, creano delle suggestioni.

Pensiamo agli appalti. Gli ultimi anni sono stato dominati da un termine: “Soft law”. Bellissimo, rende amichevole ciò che non lo è: una legge non più dura – dura lex – ma che diventa “soffice”. Però è difficile trovare oggi qualcuno che consideri la “soft law” un’esperienza riuscita. In sintesi: alle norme di un regolamento si è sostituita una congerie di testi quasi mai strutturati come norme, ma nello stesso tempo percepiti come cogenti per il ruolo di chi li emana. Affidare il settore dei contratti pubblici alla “soft law” forse è stato anche il risultato di un termine che suona bene; e così ci siamo avventurati in qualcosa di inestricabile.

Eppure, le parole del diritto non dovrebbero essere né “soft”, né puramente evocative. “Norma” deriva da “squadra”, intesa come strumento geometrico, come ci ha ricordato Natalino Irti. La norma come una “squadra”, perché deve definire uno spazio, individuare delle situazioni generali “squadrate”, da disciplinare uniformemente. Non che una cosa escluda l’altra: la norma deve essere una “squadra”, e le parole usate ben possono avere una “carica” emotiva. Ma devono essere adeguate allo scopo, e – nei limiti in cui lo consente la complessità tecnica della materia – devono essere chiare, e non troppe.

Dipende anche da come le norme vengono fatte. Sappiamo bene che è un mito, l’esistenza di un Legislatore con la L maiuscola: gli interessi umani, e, soprattutto, il caso, producono spesso norme formulate in modo da non farsi capire e applicare coerentemente. Diceva Bismarck che è meglio non sapere come sono fatte le leggi e le salsicce: Divertente, ma cinico: oggi è importante verificare entrambe le cose.

Le pubbliche amministrazioni, a loro volta, sono diventate dei produttori compulsivi di parole. Prima del 1990, non avevano l’obbligo di motivare i loro atti, né di coinvolgere i privati nei procedimenti. Sembra preistoria, e certo era un tempo in cui i provvedimenti erano più facili da scrivere. Ora l’obbligo di motivazione è imposto per legge, come quello di tener conto dell’apporto degli interessati. È una conquista di civiltà. Ma, nel corso di questi trent’anni, le amministrazioni sono diventate più brave nel redigere atti scritti in modo ineccepibile, magari con l’assistenza di un legale. Anche se ciò non corrisponde necessariamente alla sostanza delle cose: le parole, anziché motivare davvero e dare conto degli apporti degli interessati – insomma, anziché rendere l’atto migliore – possono essere utilizzate solo per far barriera alla possibilità di contestazioni.

Tutto ciò si riflette sul ruolo del giudice. In particolare, quello amministrativo è un giudice degli atti dell’amministrazione, per definizione scritti; e, dunque, è un giudice delle parole. Ma il miglioramento formale nella tecnica di redazione degli atti impone un nuovo tipo di sindacato sui contenuti dell’attività amministrativa. Né gli atti possono essere riempiti di parole vuote di reale significato per avere solo la parvenza della legittimità; né il giudice può ripetere in sentenza le parole usate dall’amministrazione come se fossero di per sé sole, se ben dette, il segno della legittimità degli atti impugnati.

E infine l’avvocato. Il suo dovere non è quello di avvantaggiarsi dell’ostacolo linguistico che norme e atti spesso oppongono ai loro destinatari. È quello di rimuoverlo. L’avvocato non può essere, nella nostra società, un archetipo manzoniano. E il riferimento non è soltanto all’Azzeccagarbugli, che rappresenta l’asservimento al potere, ma anche a don Abbondio, che si serve degli “impedimenti dirimenti” e del “latinorum” per confondere il povero Renzo: l’ostacolo linguistico appunto. E dunque il dovere dell’avvocato, oltre naturalmente al coraggio, è anche di vigilare sulla qualità linguistica. La qualità linguistica di ciò che scrive lui, certo. Ma – prima ancora – quella delle norme e degli atti, per rendere il più possibile comprensibili le une e gli altri ai loro destinatari. Perché esiste, prima di tutto, un diritto delle persone a capire per adempiere, ma dopo aver potuto comprendere il senso di ciò che viene loro imposto e aver potuto partecipare alla formazione delle scelte pubbliche.

In ciò sta un nostro fondamentale contributo come Avvocatura per concorrere a rendere democratico il sistema, secondo l’auspicio del Presidente del Senato.