«Com’è possibile che a 70 anni dalla nostra straordinaria Carta costituzionale, noi continuiamo ad avere una così palese contraddizione con i principi della Costituzione in una struttura che di fatto viene supportata dallo Stato, la magistratura, dalla politica?». Il riferimento è alle “case lavoro”, strutture dove vivono recluse persone raggiunte da una misura di sicurezza. Parliamo degli internati, coloro che hanno già finito di scontare la pena ma sono ritenuti ancora socialmente pericolosi. Una ulteriore pena che però può rinnovarsi nel tempo, con il rischio di ricreare quello che fino a qualche anno fa è stato definito “l’ergastolo bianco”.

A chiederselo è l’arcivescovo Bruno Forte e lo ha fatto durante il podcast “Incontri” di venerdì 16 aprile. Parliamo di un nuovo format della Libreria della Corte costituzionale, uscito per la prima volta il 12 febbraio scorso. Ogni venerdì la Corte “incontra” i numerosi mondi della cultura e ne raccoglie gli spunti di riflessione, rispondendo con la voce dei singoli giudici e con la lente della Costituzione. Ed è durante l’incontro della scorsa settimana, che il teologo e arcivescovo Bruno Forte della diocesi abruzzese di Chieti e Vasto, ha posto il tema dell’ergastolo bianco correlato al discorso dei cosiddetti “internati”. A rispondere è stato il giudice costituzionale Giovanni Amoroso.

L’arcivescovo, da tempo impegnato sul fronte di una delle case lavoro che si trova proprio nella sua diocesi, in particolare a Vasto, durante il podcast ha esordito parlando della nascita della nostra Carta costituzionale. Ha spiegato che rappresenta i valori del personalismo cristiano integrati con quelli del liberalismo e socialismo. «In maniera particolare – ha sottolineato il prelato - sono quelli della dignità della persona, a prescindere dalla sua storia, cultura, situazione economica, lingua e religione». Ed ecco che secondo l’arcivescovo Bruno Forte «questi valori fondamentali della Costituzione italiana sono palesemente disattesi in una realtà come quella della casa lavoro».

L’arcivescovo ha spiegato che si sta parlando di una realtà istituita in epoca fascista e mai stata abrogata. «Si tratta - ha approfondito di quelle quattro case in cui, in Italia, persone che hanno già scontata la pena, ma che sono ritenute ancora socialmente pericolose, devono continuare a vivere in condizioni di detenzione fino a quando non abbiano trovato un lavoro o una abitazione che li accolga». Realtà, com’è detto, che l’arcivescovo Bruno Forte conosce bene e dove ha constatato – e lo ha detto con convinzione - «la profonda contraddizione con i valori costituzionali».

Ribadiamo che gli internati si trattano di cittadini italiani, a volte anche stranieri, che hanno espiato la pena ma di fatto continuano ad essere detenuti perché ritenuti socialmente pericolosi. «Quello che io vedo – ha proseguito l’arcivescovo Forte durante il podcast della Corte -, è che queste persone sono realmente dei disperati, che di fatto sono aggiunti da un ergastolo bianco, perché non sanno se e quando usciranno». E ha aggiunto: «D’altra parte, nelle condizioni in cui si trovano, per loro è molto difficile riuscire a trovare uno sbocco nella loro situazione, tanto che come diocesi ci siamo attivati affinché una casa di accoglienza che avevamo originariamente destinato agli adolescenti, attraverso la comunità Papà Giovanni di don Benzi è stata destinata ad alcuni loro e possono essere accolti per poter progressivamente reinserirsi nella vita sociale e possono uscire dalla condizione di detenzione».

Ma il gran numero che continua ad esserci, al di là dei pochi che è riuscito a farli ospitare nella casa di accoglienza, fa sollevare all’arcivescovo Bruno Forte questo annoso problema: «Com’è possibile – si è chiesto - che a 70 anni dalla nostra straordinaria Carta costituzionale, noi continuiamo ad avere una così palese contraddizione con i principi della costituzione in una struttura che di fatto viene supportata dallo Stato, la magistratura, dalla politica?».

A rispondere è il giudice costituzionale Giovanni Amoroso. Per prima cosa ha voluto sottolineare che l’internamento significa privazione della libertà in termini non diversi dalla detenzione. «Gli internarti – ha precisato il giudice delle leggi – possono essere assoggettati anche allo stesso regime del carcere duro previsto dall’ordinamento penitenziario per i detenuti che abbiano commesso reati di particolare gravità, soprattutto di criminalità organizzata».

Eppure qualche differenza c’è ed è relativa alla dimensione del tempo. Lo ha spiegato bene sempre il giudice Amoroso. «I detenuti nelle carceri – ha sottolineato durante il podcast -, hanno una pena da scontare che, quando non è l’ergastolo, è di durata ben determinata. Invece gli internati non hanno questa certezza, perché la privazione della libertà personale è legata alla pericolosità che può durare a lungo. Anzi, fino a non molto tempo fa – ha precisato il giudice Amoroso -, la durata dell’internamento poteva essere senza limiti, di qui l’espressione “ergastolo bianco”».

Il giudice della Corte ha spiegato che con il tempo sono sopraggiunte diverse sentenze e anche interventi legislativi che stanno portando le misure di sicurezza sui binari della costituzione italiana, in maniera particolare il principio della finalità rieducativa della pena. «In proseguo di tempo – ha spiegato il giudice Amoroso - è stato giurisdizionalizzato il procedimento di applicazione della misura di sicurezza che non è più un procedimento amministrativo di polizia. C’è un giudice che applica la misura e che può essere chiamato a decidere ogni questione che si ponga durante l’internamento, quali innanzitutto la sua cessazione». Ha aggiunto che il primo intervento legislativo si è avuto dopo 40 anni da quando è stato introdotto quello che è tecnicamente chiamato “il doppio binario”.

«Una legge del 1986 abroga la pericolosità presunta – ha spiegato -, quindi a seguito di tale legge la pericolosità non è mai più presunta, ma deve essere accertata caso per caso dal giudice». Ma c’è anche il discorso di quello che prima era effettivamente un ergastolo bianco, ovvero la durata indeterminata dell’internamento. Il giudice della Corte ha spiegato che c’è voluta una legge abbastanza recente che risale al 2014, la quale ha stabilito che la pena in misura di sicurezza «non può durare oltre il tempo stabilito per la pena detentiva prevista per il reato commesso». In parallelo al versante del legislatore, il giudice Amoroso ha spiegato che anche la Consulta è stata chiamata a fare la sua parte intervenendo con varie pronunce, affermando il principio della residualità delle misure di sicurezza: ovvero il principio dell’extrema ratio analogo a quello del tema di custodia cautela in carcere.

«Sul piano delle garanzie – ha sottolineato il giudice Amoroso -, vuoi per l’intervento del legislatore, vuoi per le pronunce della Corte costituzionale, si sono fatti importanti passi in avanti anche se, probabilmente, ancora insufficienti». Infatti, il giudice della Consulta, ricorda che la legge del 2017 di riforma in maniera penale, aveva delegato il governo proprio nel rivedere le misure di sicurezza. «Delega però non esercitata nel termine previsto», ha affermato il giudice Amoroso al termine del podcast “Incontri”. Il riferimento è alla riforma dell’ordinamento penitenziario, purtroppo attuato a metà.