È un successo dei garantisti. Un altro, dopo il lodo sulla prescrizione e il recepimento della direttiva Ue sulla presunzione d’innocenza. Stavolta tocca alle intercettazioni. E in particolare a un dettaglio in apparenza piccolo piccolo nascosto nelle pieghe di un provvedimento sottovalutato: il decreto ministeriale firmato dall’ex guardasigilli Alfonso Bonafede per definire le tariffe in materia di intercettazioni. Ieri sera, al termine di una mediazione in cui è stato decisivo il contributo di Francesco Paolo Sisto, sottosegretario che ha seguito i lavori per conto di via Arenula, la commissione Giustizia della Camera ha dato via libera al parere positivo a due condizioni.

Primo: le società che forniscono servizi alle Procure devono gestire i dati raccolti senza mai calpestare l’articolo 268 del codice di procedura penale, il che vuol dire che la sicurezza delle operazioni deve consistere anche nell’immediata trasmissione dei dati all’ufficio giudiziario. Secondo: si è messo nero su bianco che, a giudizio della Camera, i trojan non possono essere allegramente usati pure per acquisire i “dati statitici” dai telefonini degli indagati. Come affermato con insistenza da tutto il centrodestra, ma soprattutto da Enrico Costa di Azione e Pierantonio Zanettin di Forza Italia, il “prelievo” di quei dati straborda dal perimetro della intercettazione ambientale e si traduce in una vera e propria perquisizione. Perciò, il parere al decreto ministeriale sulle tariffe è favorevole a patto che l’acquisizione «della rubrica contatti, della galleria fotografica e dei video realizzati o comunque presenti, delle password, quando non rientri nei flussi di comunicazione» debba considerarsi «attività di indagine» disciplinata dagli «articoli 247 e seguenti del codice di procedura penale».

Vorrebbe dire che, per “risucchiare” rubrica contatti e foto, il pm deve ottenere dal gip l’autorizzazione a perquisire. Una specie di rivoluzione, per le indagini basate sui trojan. In teoria il ministero della Giustizia potrebbe non dar seguito alla raccomandazione contenuta nel parere di Montecitorio. Ma il sottosegretario Sisto, e una ministra come Marta Cartabia, non hanno certo dedicato per caso tanta attenzione ai lavori.

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Il via libera “consultivo” della commissione Giustizia riguarda naturalmente l’intera ratio del decreto, ivi compresi i risparmi sul costo delle intercettazioni che Bonafede aveva realizzato. Ma è sui nuovi obblighi per i pm che potrebbe aprirsi un passaggio delicato per la maggioranza di qui a pochi giorni, quando andranno presentati (il 23 aprile) e poi votati (a metà maggio) gli emendamenti alla riforma del processo penale. Certo, non esattamente il veicolo normativo più agile per impiantarvi dentro anche un capitolo sulle intercettazioni. D’altra parte l’affinità di materia non può essere messa in discussione. E anzi, si potrebbe ricordare che proprio nell’ultima riforma penale approvata in Parlamento, quella di Andrea Orlando, trovò posto l’ampia e dettagliata delega al governo per la revisione delle norme sugli “ascolti”. Tradotta poi in un primo decreto legislativo, firmato dall’ex guardasigilli (e attuale ministro del Lavoro) a fine 2017, fino alla definitiva entrata in vigore sancita con il decreto legge di Bonafede nel settembre 2020.

Finora alcune sentenze della Cassazione avevano cucito una toppa sul vulnus, abbastanza clamoroso, emerso, grazie a Costa e Zanettin, fra le pieghe del “banalissimo” decreto tariffe: di fronte a impugnazioni in cui si segnalava l’uso improprio del trojan, la Suprema Corte aveva ritenuto comunque ammissibili le prove acquisite in quanto “prove atipiche”. Adesso toccherà al legislatore stabilire se sia tollerabile che una Procura, autorizzata a inoculare il trojan in modo da trasformare il cellulare dell’indagato in una microspia ambientale mobile, ne approfitti anche per acquisirne i “dati statici”. Una perquisizione per la quale sarebbe necessario procedere con le garanzie necessarie, fino al coinvolgimento del difensore. Ovvio che in condizioni simili nessun pm brucerebbe l’operazione di spionaggio investigativo pur di poterlo intrecciare con la perquisizione digitale. Ed è dunque evidente come una puntuale disciplina dell’uso estensivo del trojan possa tradursi in un limite per le Procure tutt’altro che irrilevante. Ma seppure il legislatore restasse inerte, si prefigurerebbe un altro rischio: un giudizio di legittimità dinanzi alla Consulta. Che, se sfavorevole alla perquisizione digitale, travolgerebbe centinaia di sentenze.