Con un decreto presidenziale pubblicato stamani sulla Gazzetta Ufficiale turca, Erdogan ha ritirato l’adesione del proprio paese alla Convenzione di Istanbul del 2011, sottoscritta dal Parlamento turco all’unanimità nel 2012. La Turchia era stata il primo firmatario della Convenzione, seguita da 31 paesi su 37 del Consiglio d’Europa. La Convenzione e i suoi 81 articoli è unanimemente considerata la migliore tutela che le donne abbiano raggiunto in questi anni per difenderle dagli atti di violenza di genere e di discriminazione: un caposaldo legislativo che rende un po’ meno deboli le donne di tutta Europa. Essa individua nuovi (allora) reati come lo stalking, la violenza psicologica, il matrimonio, l’aborto e la sterilizzazione forzati e altri ancora, e costringe gli Stati firmatari ad approntare rimedi contro la violenza di genere. Violenza che proprio in Turchia raggiunge vette e numeri di fronte ai quali impallidiscono quelli degli altri paesi: un recente studio ha dimostrato che una donna su tre ha subito una vera e propria violenza sessuale in vita sua. Basti dire i numeri dei femminicidi: negli ultimi anni sono su una media stabile di più di 300 l’anno (324 nel 2019, 284 nel 2020, 33 nel solo febbraio 2021, ultimo dato pervenuto), con punte di più di 400. Se c’è un paese che ha bisogno più di ogni altro della Convenzione di Istanbul, questo è la Turchia. Il ministro della Famiglia e il portavoce di Erdogan, nell’intervenire sul decreto presidenziale, hanno affermato che la Turchia non ha bisogno di una norma internazionale, che la famiglia e la cultura della famiglia bastano a tutelare le donne, soprattutto “bastano i valori tradizionali che fanno della famiglia un asse portante della società turca”. Questo richiamo ai “valori tradizionali” è la chiave per comprendere la mossa di Erdogan: l’attacco è sì principalmente contro le donne, ma tiene d’occhio anche (se non soprattutto) il movimento Lgbt+, molto forte nelle grandi città e che vede in primissima fila lesbiche e trans, su posizioni di chiara opposizione al governo. Facile prevedere come prossima mossa una messa fuori legge di tale movimento, che trovava proprio nell’articolo 4 della Convenzione una difesa dagli atti discriminatori delle persone sulla base degli orientamenti sessuali. Ma quale è l’obiettivo politico di una mossa simile? Ci sta dentro, naturalmente, l’insofferenza tipica del sultano ad ogni norma e legame pattizio e proveniente da qualche altra fonte, pur se recepita dall’ordinamento interno. Ma ci sta pure la sudditanza ai voleri del partito Mhp, alleato fondamentale della coalizione di governo (da solo lo Akp, il partito di Erdogan, non avrebbe avuto il 50% dei voti alle ultime politiche e al referendum costituzionale). Lo Mhp è partito ultraconservatore, islamista integralista, che mira alla reintroduzione della sharia (la legge islamica) per governare le questioni familiari: era stata bandita da Ataturk nel 1923 al momento della costituzione della repubblica. È su questo che si gioca la partita in Turchia. La rimoscheizzazione di Santa Sofia e di Chora a Istanbul, non erano state che l’assaggio. Naturalmente, la disdetta dell’adesione della Turchia alla Convenzione di Istanbul ha suscitato sdegno in tutta Europa (eccetto che da parte di Di Maio). Ma ha sollevato proteste soprattutto in patria sia per le modalità con cui è avvenuta – un decreto presidenziale che abroga una legge approvata unanimemente dall’intero Parlamento – sia perché il forte movimento delle donne considera la Convenzione una conquista e uno scudo necessario. Difatti in tutto il paese le donne si sono convocate in piazza per stasera e, c’è da giurarci, la questione non finisce qui. *Osservatore Internazionale UCPI