I criteri del programma di protezione dei collaboratori di giustizia sono fissati da una legge del 1991 scritta su impulso di Giovanni Falcone, che allora era direttore generale degli affari penali del Ministero della giustizia. Con il tempo, poi, il parlamento ha affinato lo strumento più volte, soprattutto sulla distinzione tra chi si pente dopo aver fatto parte dei clan e chi è vittima o testimone dei fatti e decide di parlare. Le dichiarazioni agli inquirenti dei collaboratori di giustizia, ad esempio, devono avvenire entro 180 giorni dalla dichiarazione di volontà di collaborare. Come funziona la protezione? La prima fase è il trasferimento del “pentito” e dei suoi familiari, che viene allontanato dalla sua zona di origine e residenza. La seconda fase è il trapianto del nucleo familiare in una nuova realtà sociale dove possono sorgere problemi di rapporti umani, di amicizie, di parenti abbandonati (sindrome da sradicamento). I benefici possono riguardare il lavoro, la scuola, l’arredamento e tutto il necessario per una vita decente, a cui si aggiungono i benefici carcerari se il collaboratore deve scontare la pena. Il contributo mensile ai pentiti, che si aggiunge alla disponibilità di un appartamento dignitoso, è parametrato all’indice Istat sul costo della vita, alla misura degli assegni sociale e via discorrendo. Un patto tra lo Stato e il pentito In sostanza la collaborazione si fonda su un patto tra lo Stato ed il pentito. Una trattativa: tu fai i nomi e noi ti garantiamo una vita decente. Se da una parte la figura del pentito è sacrosanta per la lotta alla mafia, dall’altra si rischia di trasformarlo in una sorta di “consulente” a vita. Questo perché i pentiti sono sempre considerati imputati di reato connesso. Ecco perché, anche nei processi su episodi recenti, ci ritroviamo pentiti “storici” che non possono conoscere i fatti attuali. Può anche accadere che lo Stato possa diventare inconsapevolmente il braccio armato della lotta tra clan. Non di rado accade che i pentiti siano una testa di legno di un clan che li usa per smantellare i loro rivali senza ricorrere allo spargimento di sangue. Può anche accadere che nel corso del tempo ci siano pentiti che ricordino improvvisamente degli eventi; a volte gli eventi si incastrano con i teoremi giudiziari del momento. Il "Nano" e gli altri e la strage di Via D'Amelio In particolare, sulla strage di via d’Amelio, diversi pentiti si sarebbero inseriti nel raccontare le loro verità solo dopo che erano emersi nuovi nomi nelle accuse degli inquirenti. Tra questi, figurerebbero anche pentiti che non erano di Cosa Nostra, come Nino Lo Giudice, che un tempo era a capo di un clan di Reggio Calabria. Il “Nano”, così era soprannominato, sapeva, ma non lo aveva mai detto prima, che a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato il poliziotto Giovanni Aiello, uomo da qualche anno morto d’infarto, su cui si era concentrato l’imbuto dei misteri. Glielo avrebbe confidato anni prima Pietro Scotto, quando erano insieme in carcere all’Asinara. Non solo, sempre a dire del “Nano”, anni dopo lo stesso Aiello avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio nel 1989. Le sue dichiarazioni, rese a Reggio Calabria, furono trasmesse alle Procure siciliane. Inutile dire che parliamo di un pentito che in diverse occasioni è risultato inattendibile, parla e ritratta a seconda di come tira il vento. Quei pentiti che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa Ma ogni tanto c’è anche un giudice a Berlino. Nelle motivazioni della sentenza del 2013, che assolse l’ex Ros Mario Mori e Mario Obinu nel processo clone sulla Trattativa, il giudice Mario Fontana puntò il dito contro quei collaboratori di giustizia, che il più delle volte hanno l’attitudine a compiacere la pubblica accusa. Il giudice parla di cautela nelle valutazioni, perché «non consentono, in via astratta, di escludere che le indicazioni fornite siano state indotte dalla volontà di compiacere gli inquirenti, in dipendenza della particolare importanza che alle stesse indicazioni sarebbe stata attribuita». La notazione che si legge nelle motivazioni vale, in particolare, per il pentito Giovanni Brusca «nelle cui dichiarazioni si devono registrare aggiornamenti inediti, seguiti a una nuova inchiesta giudiziaria promossa nei suoi confronti, e svariate oscillazioni, concernenti indicazioni di notevole rilievo, che potrebbero essere state influenzate da improprie interferenze inquinanti, collegate a notizie di stampa relative a pregresse acquisizioni dibattimentali». Non solo Fontana, ma pure Marina Petruzzella che nelle motivazioni dell’assoluzione di primo grado dell’ex ministro Calogero Mannino (assoluzione – dove smontata il teorema trattativa stato mafia - confermata in cassazione), scrisse che le interpretazioni del collaboratore di giustizia erano state «suggerite dalle molteplici sollecitazioni, ricevute nel corso di interrogativi, a volte anche molto sofisticati, degli inquirenti e dalle contestazioni fattegli durante i suoi esami». Lo Stato magnanimo con Giovanni Brusca Eppure con Brusca, proprio perché pentito, lo Stato è stato magnanimo. Ha sciolto nell’acido un bambino, Giuseppe Di Matteo, per zittire il padre che pentito lo era diventato prima di lui. Ha “scannato” tante persone da non ricordare l’esatto numero delle vittime. Forse cento, addirittura centocinquanta. Ha schiacciato il telecomando dando il via all’inferno di Capaci. Niente ergastolo per tutto questo, ma una condanna a trent’anni che finirà di scontare il prossimo novembre nel 2021 e una sfilza di permessi, un’ottantina, alcuni dei quali per trascorrere le festività a casa. Non si saprà mai quanta sincerità ci sia nella richiesta di perdono, peraltro tardiva, rivolta da Brusca ai parenti delle vittime che ha ammazzato. Certe, invece, sono le contraddizioni che hanno da sempre accompagnato i suoi racconti. Il sospetto che dica ciò che i PM vogliono sentirsi dire è abbastanza concreto. Tanti pentiti rischiano di comportarsi così. Il pentitismo è importante, ma pochi Pm seguono le orme di Falcone: vagliare le dichiarazioni dei pentiti, senza assecondarli. E se raccontano menzogne, inquisirli per calunnia.