Sono vent’anni che il Paese è lacerato dalle divisioni attorno alla giustizia. E forse si è sempre sottovalutato il contributo che la magistratura può offrire sul piano culturale, in termini positivi, per superare una simile frattura. Ebbene ieri, all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la sezione Lazio della Corte dei Conti, si è avuto uno straordinario esempio di quanto sia prezioso il messaggio positivo dei magistrati. In particolare da parte del presidente Tommaso Miele, che su tutti ha voluto scolpire un principio: «Siamo noi magistrati a dover affermare la cultura delle garanzie». Un intervento lucidissimo, davvero esemplare. Partito da una constatazione: «Oggi la nostra società è permeata da un giustizialismo alimentato da una sorta di voglia di vendetta, di odio sociale, che si sta quasi affermando come fine ultimo della giustizia, e che sta offuscando quei sacri principi di diritto scritti a caratteri cubitali nella nostra Carta costituzionale». Una Costituzione che «non a caso si pone, per questa parte, fra le più avanzate del mondo», ha detto Miele. E ancora: «Oggi sembrano essersi smarriti quei sacri principi quali la presunzione di non colpevolezza, il principio secondo cui ‘ onus probandi incumbit ei qui dicit’ e non viceversa: l’esercizio della funzione giurisdizionale», ha scandito il presidente della sezione, «deve essere finalizzato all’affermazione della giustizia e all’accertamento della verità, e non alla vendetta; al diritto del cittadino a una giustizia rapida, efficiente e soprattutto giusta; al diritto a un giusto processo, al diritto a una ragionevole durata del processo».

E quindi quel passaggio sulla responsabilità, sull’onere persino pedagogico che ricade sui magistrati: «Soprattutto noi giudici dobbiamo impegnarci a che non si affermi questa cultura del diritto e della giustizia», quella cioè che intende l’accertamento giudiziario come vendetta, «e dobbiamo», appunto, «impegnarci a riaffermare con forza la cultura delle garanzie, dei diritti del cittadino che i nostri padri costituenti hanno voluto scrivere con tanta chiarezza. Oggi più che mai», ha aggiunto Miele, «occorre riaffermare una giustizia dal volto umano. Impegnarsi per la riaffermazione di una giustizia giusta, che è riconciliazione. Il giudice deve essere fedele interprete dei principi sopra richiamati, sforzandosi di declinarli realizzando e assicurando il pieno ed effettivo contraddittorio e l’assoluta parità tra le parti, la terzietà e l’imparzialità, e, soprattutto, la ragionevole durata del processo».

Miele è un magistrato contabile. Ma è evidente l’attualità delle sue parole a proposito delle tensioni che anche nella nuova fase politica dividono la maggioranza sul processo penale, in particolare sulla prescrizione e sul rischio che la durata dei giudizi sia infinita, anziché ragionevole. «Il buon giudice», ha continuato il presidente della sezione Lazio della Corte dei Conti, «non solo deve essere terzo e imparziale, ma deve anche apparire tale: mai deve far venire meno nel cittadino la fiducia in una giustizia giusta». E un processo giusto, ricorda Miele, «va declinato e integrato con il diritto del cittadino a essere giudicato da un giudice sereno, equilibrato, che ispira fiducia e che non abbia altra finalità che quella dell’accertamento della verità». E poi un altro passaggio esemplare sulla pena costituita già dal fatto di essere sottoposti alla giustizia, che si tratti di quella penale o di quella contabile: serve un giudice consapevole del fatto che «per il convenuto già l’essere sottoposto a un processo costituisce una pena. E un giudizio troppo lungo», ha ricordato Miele, «diventa un anticipo di pena, anche se l’imputato, o il convenuto nel caso del nostro giudizio, non è ancora stato condannato. Di qui l’impegno a rendere una giustizia rapida, efficace, serena, che rassicuri e ispiri fiducia, che sappia conciliare il diritto dello Stato ad affermare il proprio potere, nel nostro caso a perseguire il danno erariale, con i diritti del cittadino a una giustizia giusta».

Fino a un’altra considerazione sacrosanta sul peso della giustizia mediatica: «Il tempo che scorre è già una condanna, specie se già il solo fatto di essere sottoposti a un processo viene comunque strumentalizzato attraverso una micidiale macchina del fango, sui media e sui social network».

Un discorso che sarebbe bello sentir ripetere a ogni inaugurazione dell’anno giudiziario. Il presidente Miele non ha mancato di soffermarsi sul tradizionale consuntivo dell’attività svolta dal suo ufficio nell’anno precedente: «Nel corso del 2020 la sezione ha definito 97 giudizi di responsabilità ed emesso 18 ordinanze istruttorie». Quanto alla durata dei giudizi di responsabilità, si è riusciti a definirli «in tempi assolutamente ragionevoli e certamente inusuali rispetto al corso della giustizia ordinaria nel nostro Paese, vale a dire in una media di circa 18 mesi». Ed è difficile dubitare che, oltre ai tempi brevi, siano state assicurate anche tutte le garanzie costituzionale evocate da Miele nel suo intervento.