Ogni volta, come nel caso di Graviano, che un detenuto mafioso “eccellente” fa istanza per chiedere un permesso premio, puntualmente arriva il Fatto Quotidiano a ricordare la famosa sentenza della Consulta che ha ritenuto incostituzionale l'articolo 4 bis dell'Ordinamento penitenziario nella parte in cui vieta il permesso premio. Non solo. Subito in qualche modo si evoca la presunta trattativa Stato-mafia, una tesi giudiziaria che è diventata una spada di Damocle sopra la testa di chiunque ha cuore la nostra Costituzione, nata per arginare qualsiasi forma autoritaria e concezione da Stato di Polizia. Ma fin dai tempi antichi, la paranoia e complottismo sono da sempre andati a braccetto con quei poteri che vogliono soffocare lo Stato di Diritto e avere sempre più potere ricorrendo perfino all’utilizzo dei nomi di quelle persone che hanno seriamente servito lo Stato come, in questo caso specifico, quello di Giovanni Falcone. Per farlo hanno bisogno di chi inconsciamente crea disinformazione, o fa allusioni come quando viene ricordato che tra i giudici della Consulta c’era anche l’attuale ministra della Giustizia Marta Cartabia. La colpa di quest’ultima è quella di essere una fine giurista, che ha come unica via maestra la Costituzione. Una carta che fa da scudo a ogni singolo cittadino dagli abusi di qualsiasi potere, economico, politico o giudiziario che sia. La dissociazione non è contemplata giuridicamente per i mafiosi Ora è la volta di Filippo Graviano, il quale assieme al fratello Giuseppe ebbe un ruolo importante nell'organizzazione delle stragi continentali del 1993 a Firenze, Milano e Roma e nell'omicidio di don Pino Puglisi. Dal 1994 è ininterrottamente al 41 bis. Dopo 27 anni, a seguito della sentenza della Consulta, Filippo Graviano ha chiesto il permesso premio. «Si dice dissociato. Basterà?», si chiede l’autore dell’articolo de Il Fatto. No, per la Consulta non basta assolutamente come parametro di valutazione. La dissociazione è un fatto personale, che a differenza di chi è dentro per terrorismo non è contemplato giuridicamente nei confronti dei mafiosi. Per quest’ultimi esiste solo lo status di collaboratore di giustizia per avere diritto a tutti i benefici penitenziari. Basti pensare al pentito Giovanni Brusca, colui che ha sciolto un bambino nell’acido e ha commesso quasi un centinaio di omicidi. Lui da tempo ha usufruito di vari permessi e nessuno si è scandalizzato. Un suo diritto, nulla da obiettare. Per Falcone il 4 bis non esclude i benefici in assenza di collaborazione Così come, dal 2019 è un diritto poter richiedere il permesso premio anche da parte di chi non ha collaborato con la giustizia. Si fa il nome di Falcone che ha ideato il 4 bis dell’ordinamento penitenziario per i detenuti mafiosi. Verissimo, peccato che si omette di dire una verità “indicibile” per chi usa l’antimafia come strumento di potere: consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale, non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. In soldoni, ciò che aveva ideato Falcone contemplava questa ratio: se non collabori non è preclusa la misura alternativa, devi solo attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Ebbene sì, la sentenza della Consulta, dove all’epoca – lo ricordiamo con piacere anche noi – c’era anche Marta Cartabia, avvicina il 4 bis al decreto originale ideato da Falcone: l’assenza di collaborazione non deve precludere a vita la possibilità di accedere ai benefici della pena. Era accaduto che, dopo la strage di Capaci e di Via D’Amelio, lo Stato italiano, non solo non si è giustamente piegato alla mafia, ma per reazione ha approvato il secondo decreto legge, quello del 1992, che introduce nel nostro ordinamento un regime ostativo del tutto differente rispetto a quello voluto da Falcone. Con il decreto legge post strage, senza la collaborazione con la giustizia, è preclusa in ogni caso la possibilità di accedere alle misure alternative. Uscendo, di fatto, dal perimetro costituzionale che Falcone voleva invece salvaguardato. Anche questo episodio dovrebbe far riflettere sul fatto che non c’è stata nessuna trattativa che aveva alleggerito la carcerazione dei mafiosi. Esattamente l’opposto. Una reazione durissima, tanto da approvare il 41 bis e rinchiudervi centinaia e centinaia di persone. Un vero e proprio rastrellamento dettato dall’emergenza del momento che però, oltre ai boss veri, hanno recluso al carcere tantissime persone non appartenenti a cosa nostra. Ci furono numerose istanze presentate dinanzi alla magistratura di sorveglianza che, a sua volta, ha sollevato il problema alla Corte costituzionale. Quest’ultima, con la numero 349 e depositata in cancelleria il 28 luglio del 1993, ha sentenziato che per decidere la proroga del 41 bis, bisogna valutare caso per caso. Detto, fatto. A ben 300 detenuti non è stato rinnovato il carcere duro, ma solo 18 di loro appartenevano alla mafia. Non solo. A seguito di una nuova applicazione, si era ridotto a soli undici soggetti mafiosi. Il mancato rinnovo del 41 bis è frutto di scelta dettata dalla sentenza della Corte costituzionali e altri fattori che nulla c’entrano con la presunta trattativa. Casomai, ancora una volta, il “mostro” è la Consulta, rea di far applicare la Costituzione italiana e quindi difendere lo Stato di Diritto anche in tempi emergenziali. A meno che non si pensi che ci sia stata una trattativa Consulta- mafia. Non diamo limiti all’immaginazione. La Corte costituzionale ha posto paletti molto rigidi Ma ritorniamo alla “dissociazione” mafiosa. Un falso problema sul quale, forse per ignoranza, alcuni giornali tentano di specularci sopra. Nonostante la portata “rivoluzionaria” della sentenza, la Consulta dimostra comunque di aver preso attentamente in considerazione le particolari esigenze di tutela alla base della previsione dell’articolo 4 bis. Essa, infatti, si cura di precisare che la presunzione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – che da assoluta diviene relativa, nei limiti in cui opera la pronuncia in esame – può essere superata solo in base a valutazioni particolarmente rigorose, che non si limitino alla regolare condotta carceraria, alla mera partecipazione al percorso rieducativo o a semplici dichiarazioni di dissociazione del detenuto. Viene messo in rilievo, in proposito, che già la prima versione dell’art. 4-bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario prevedeva che l’accesso alle misure alternative e premiali per i reati di prima fascia fosse subordinato all’acquisizione di «elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva», requisito tuttora necessario ai sensi del c. 1-bis dell’articolo in parola per i casi di collaborazione inesigibile, impossibile o irrilevante. La magistratura di sorveglianza, pertanto, secondo quanto indicato dalla Corte, non dovrà solo svolgere una seria verifica della condotta penitenziaria del detenuto, ma dovrà altresì considerare il contesto sociale esterno, acquisendo dettagliate informazioni per il tramite del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente. Viene ricordato, poi, che ai sensi del comma 3-bis dello stesso art. 4-bis, tutti i benefici in questione non possono mai essere concessi allorché il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale evidenzino l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.In sintesi, la sola “dissociazione” non basta. È uno dei tanti elementi che la magistratura di sorveglianza deve valutare per concedere o meno il permesso premio che può essere richiesto dopo l’espiazione di tantissimi anni. La collaborazione con la giustizia rimane la “via maestra”. Esattamente come prevedeva Falcone.