Il Comitato nazionale per la bioetica ha pubblicato una mozione dal titolo “La solitudine dei malati nelle strutture sanitarie in tempi di pandemia”, e il suo presidente, Lorenzo D’Avack, spiega che «in futuro si dovrà fare ogni sforzo per costruire strutture sanitarie a portata di paziente».

Presidente D’Avack, da dove arriva il bisogno di scrivere il documento?

È un problema delicatissimo e abbiamo avuto la necessità di scrivere questa mozione dopo centinaia e centinaia di mail in cui veniva espresso il sentire comune per cui la presenza del familiare al letto del paziente diventa motivo di cura. Il Comitato affrontò il tema delle visite dei parenti nelle terapie intensive già nel 2013.

Ci riferivamo all’importanza di avere la presenza dei familiari in determinati reparti già quando queste visite erano vietate anche senza il Covid, ma oggi il problema è drammatico perché sono vietate anche le visite ordinarie.

Qual è la condizione dei malati Covid nelle strutture sanitarie e in che modo viene espressa la solitudine dei pazienti in un periodo così complicato?

Nelle strutture sanitarie adibite a Covid il paziente vive la sua condizione di malato completamente isolato rispetto alla famiglia.

Siamo consapevoli che consentire oggi la visita dei parenti non sia semplice, ma bisogna fare uno sforzo. Dobbiamo immaginare che il Covid ci accompagnerà per lungo tempo e i pazienti che si trovano in condizioni gravi senza previsioni sulle tempistiche di guarigione rischiano di morire in piena solitudine.

É dunque un invito “futuro”, in vista di un auspicabile calo dei ricoverati malati di Covid?

Sì, ma il problema è che le nostre strutture non sono tali da garantire la presenza dei familiari e il rischio è che questi inviti del Comitato, pieni di valori etici, possano cadere nel nulla. Non perché i medici non vogliano i familiari, ma perché sarebbe molto complicato garantire un percorso distinto per evitare i contagi. L’opera dei nostri operatori sanitari è eroica ma l’auspicio è che la nostra mozione dia il messaggio di fare ogni sforzo per pensare a un’organizzazione diversa di queste strutture.

Crede quindi che una parte dei fondi del Recovery plan debba essere adibita a questo?

Quando si parla del Recovery plan che deve essere utilizzato per strutture sanitarie credo si debba pensare a costruire strutture che sotto il profilo architettonico siano “a portata di paziente”. Ci siamo confrontati con il dottor Nicastri, direttore del reparto di Malattie infettive dello Spallanzani, il quale ci ha spiegato la difficoltà, nei casi estremi, dell’opportunità di un incontro tra un paziente e i familiari. I medici si rendono conto di quanto sia importante, ma si sentono impotenti.

In futuro a cosa si potrebbe pensare per garantire un qualche tipo di contatto tra malati e familiari?

Anche oggi alcuni incontri avvengono attraverso vetri di separazione ma tutto ciò presuppone anche la preparazione dei familiari, che devono essere vestiti e “controllati” per poter incontrare il parente malato. Ma occorre ripensare le strutture sanitarie in previsione del futuro.

Abbiamo indicato la possibilità di potenziare gli incontri a distanza con i dispositivi tecnologici e alcune iniziative in altri paesi prevedono di utilizzare addirittura dei canali televisivi destinati a un contatto continuo audiovisivo tra paziente e familiare.

In molte Rsa sono state progettate delle “stanze degli abbracci”, con dei teli di nylon trasparente che permettono il contatto. É la strada giusta?

Le vicende delle Rsa e delle strutture sanitarie Covid presentano molte analogie. Certamente la situazione nelle Rsa sta progredendo e le stanze degli abbracci, utilizzate anche negli ospedali pediatrici, sono soluzioni che funzionano. So che anche il ministero della Salute ha pubblicato un documento sulla possibilità di aprire le porte nelle Rsa agli incontri tra anziani e familiari e ci sono interventi per evitare l’assoluto isolamento. Dobbiamo anche tenere conto del fatto che non è sempre facile spiegare agli anziani cosa stia succedendo al di fuori della Rsa.

All’inizio della seconda ondata il Comitato emise un parere sulla campagna vaccinale, raccomandando celerità e vaccini per tutti. A che punto siamo?

Bisogna accelerare. Ritengo personalmente che occorra muoversi urgentemente. È stato pubblicato il secondo piano vaccinale dove nella scelta di chi vaccinare prima si cerca di tenere conto di sia della vulnerabilità che dell’età ma stiamo assistendo a due strade: quella percorsa dai vaccini Pfizer e Moderna è lenta perché ci sono mancate le dosi, e qui mi chiedo se sia giusto che l’Italia prenda una strada autonoma nel reperire le dosi; l’altra è quella che prevede l’uso del vaccino di AstraZeneca, del quale arriveranno molte più dosi ma che sappiamo può essere somministrato fino a una certa età. A mio parere il piano vaccinale dovrebbe andare avanti giorno e notte, sette giorni su sette, ma per farlo chiaramente serve un numero di dosi adeguato.