Alla fine Raffaele Cutolo è morto tumulato al 41 bis del carcere di Parma. Nell’ultimo periodo ha fatto un via vai tra carcere e ospedale, per questo ha chiesto la detenzione domiciliare per gravi motivi di salute. A maggior ragione quando, a inizio pandemia, la Ausl locale ha dipinto il penitenziario parmense ad “alta complessità sanitaria”. Molti sono i passaggi del documento della Ausl dove veniva evidenziata una presunta inadempienza da parte della precedente amministrazione penitenziaria sulla collocazione di alcuni detenuti al centro clinico (ora denominato Sai) del super carcere di Parma. Un documento nel quale viene indicata una lunga lista di persone over settanta e con varie patologie che sono “curate” nelle sezioni “comuni” e non nel Sai (Servizio di assistenza integrata – ex centro clinico), tanto che la stessa Ausl consiglia di valutare un differimento pena per la tutela della loro salute. C’era una prima lista, la più urgente, che è composta da 51 nominativi classificati a rischio per l’età e presenza di importanti comorbidità (la coesistenza di più patologie diverse in uno stesso individuo, ndr). Tra i nomi compariva anche quello di Raffaele Cutolo. Ma niente da fare, per la magistratura di sorveglianza, nonostante le sue gravi malattie conclamate e in un ambiente penitenziario non adatto, poteva rimanere benissimo in carcere. Negato perfino il differimento pena provvisorio. ”Ho incontrato mio marito in carcere a Parma un mese fa, era previsto un colloquio normale attraverso il vetro, ma mi sono ritrovata davanti una persona 90enne con una bottiglia in mano, non parlava, non dava segni, è stato bruttissimo vederlo in quelle condizioni. Mia figlia non si è sentita bene, non ha voluto restare più di tanto, e siamo andati via perché era inutile parlare con una persona che non alzava gli occhi, non riusciva a portare la bottiglia alla bocca, una persona che non rispondeva quando lo chiamavamo”. Ad affermarlo, a tratti piangendo, è stata Immacolata Iacone, moglie di Raffaele Cutolo, intervenendo quest’estate al Consiglio Direttivo di ”Nessuno tocchi Caino-Spes contra Spem” dal titolo ”41-bis: monumento speciale della lotta alla mafia, fossa comune di sepolti vivi”.Raffaele Cutolo è morto a 79 anni, afflitto da gravissime malattie e recluso da 40 anni, delle quali 25 al 41 bis. La nuova camorra organizzata non esiste da decenni, tutti i suoi associati sono morti, ha una moglie e una figlia di 12 anni, ha un fratello di novant’anni e la sorella altrettanto anziana. Nasce nel 1941 a pochi passi dal Castello mediceo di Ottaviano, da genitori contadini. A soli 22 anni commette il suo primo omicidio per una questione d’onore. Dopo tre anni entra in carcere. Qui, con brevi periodi di latitanza, passerà l’intera sua vita, e da qui inizierà a lavorare al suo progetto criminale.Cutolo, all’interno del carcere napoletano di Poggioreale, formò un’associazione criminale sul modello di quella calabrese e siciliana, con una precisa data di fondazione: il 24 ottobre del 1970. Da decenni la sua camorra non esiste più. Non è rimasto capo di più nulla, ma secondo i magistrati rimane un simbolo. Resta il dato oggettivo che “Don Raffaè”, reso famoso da Fabrizio De Andrè in una canzone a lui dedicata, e da Giuseppe Tornatore nel film “Il camorrista”, interpretato da Ben Gazzara e ispirato al libro di Joe Marrazzo, è morto senza uscire dal carcere duro. Ha senso il 41 bis visto che lo scopo originario era finalizzato esclusivamente ad evitare che un boss mandi messaggi al proprio gruppo di appartenenza criminale? Ma soprattutto, è meglio la pena di morte, oppure la pena di morte lenta che esiste di fatto per le persone come Cutolo?