E così il percorso imprevedibile dei pensieri coraggiosi e lungimiranti di Carlo Maria Martini – descritti dall’amico Adolfo Ceretti in questo volume in modo raffinatissimo – ha raggiunto anche me. Quel pensiero profondo e innovativo sulla giustizia, sul male, sulla colpa, sulla pena, sul carcere, sulla riconciliazione mi ha raggiunta ora, anche se, inevitabilmente, mi ha lambita sin dagli anni della sua presenza a Milano: quelli sono anche gli anni dei miei studi giuridici e dei miei primi passi nella carriera accademica nel capoluogo lombardo, ma in quella fase i miei interessi erano rivolti altrove, professionalmente concentrati su altri rami del diritto.

Non è sufficiente essere esposti a riflessioni pro fonde per esserne perturbati; occorre che il terreno sia preparato perché una parola, un’idea, un pensiero, pur sublimi, si radi chino e si accendano in chi ascolta. E per comprendere una riflessione sulla realtà dei delitti e delle pene “bisogna aver visto”, come osservava Piero Calamandrei in un celebre intervento sulla situazione del carcere pubblicato sulla rivista Il Ponte nel 1949 (CALAMANDREI, 1949). Anche per Carlo Maria Martini è iniziato così, dall’aver visto. Anzi: dall’aver visitato. Noto studioso e biblista, uomo di pensiero e di riflessione, Martini inizia la sua attività pastorale come arcivescovo di Milano scegliendo come luogo di elezione proprio il carcere di San Vittore, per il risuonare in lui Vangelo secondo Matteo che tante volte ha ripetuto nei suoi scritti e nei suoi interventi: «Ero in carcere e mi avete visitato».

«Venendo a Milano, ho voluto iniziare la visita pastorale alla città e alla Diocesi cominciando proprio dal carcere di San Vittore, quale segno emblematico delle contraddizioni e delle sofferenze della società. Mi urgevano e mi urgono dentro le parole di Gesù: “Ero in carcere e mi avete visitato» (cfr. Matteo 25, 43). L’azione del visitare nel pensiero di Carlo Maria Martini ha una valenza umana e religiosa profondissima: lungi dalla formalità dell’atto di cortesia che talvolta il linguaggio comune evoca, descrive un rapporto coin volgente, come quello biblico di Dio che visita il suo popolo. «Il termine “visitare” va compreso naturalmente nel suo profondo e ricco significato biblico: Dio “visita” il suo popolo perché lo vuole incontrare, vuole stare con lui e condividerne la vita, vuole provvedere ai suoi bisogni e soccorrerlo nell’angoscia, vuole liberarlo dalla prigionia». Similmente: «Visitare i carcerati vuol dire prendersi cura di loro, recarsi nella casa dei prigio nieri, intrattenersi con loro per amicizia, offrire ad essi un possibile servizio, liberarli». È singolare notare che il verbo utilizzato dalla versione greca di Mt 25,36 e Mt 25,43, in corrispondenza del verbo latino visitare, è episkeptomai, verbo che, nella sua gamma semantica, include il “vedere con attenzione”. Da questa parola deriva il termine con cui ancora oggi si indica il munus episcopale del vescovo racchiude in sé, come suggerisce il verbo greco, le azioni di andare a vedere, visitare, ma anche aiutare i più deboli provvedendo ai loro bisogni. È di grande suggestione pensare che l’arcivescovo di Milano abbia iniziato la visita pastorale della città immedesimandosi fino in fondo con quel compito che sin dal nome che lo designa evoca, quasi letteralmente, l’atto di visitare piegandosi su chi soffre di più. È l’esperienza del carcere, ripetutamente e regolarmente visitato, la sorgente del suo pensiero così carico di idee nuove tanto nella sua dimensione teologica e biblica quanto in quella civile e sociale. È dal vedere che sorge l’idea. Idea viene dal greco idéin, che pure significa vedere.

Quando ci si lascia coinvolgere dall’esperienza di ciò “che abbiamo udito, veduto, contemplato e toccato”, scrive Jean Vanier, sorgono le grandi domande. Sono soprattutto le “esperienze paradossali” di un “mondo sottosopra” a destare le domande e “le idee vengono quando ci si mette in ricerca, si fanno le domande” (VANIER, 2015, pp. 9- 24). Di qui la potenza creativa e innovativa del conoscere visitando. S i parva licet, anche noi giudici costituzionali, di recente, abbiamo visto, grazie a una encomiabile e inedita iniziativa della Corte costituzionale che ha preso avvio con una visita al carcere di Rebibbia il 4 ottobre 2018. Il viaggio della Corte costituzionale nelle carceri italiane (CORTE COSTITUZIONALE, 2018) ci ha portati in numerosi istituti di detenzione, dove abbiamo incontrato le persone ristrette, la Polizia penitenziaria, i direttori, gli educatori, i volontari. Abbiamo osservato i luoghi, abbiamo condiviso tempo ed esperienze, abbiamo dialogato e molto ascoltato. A chi scrive, il 15 ottobre 2018, è capita to di oltrepassare per la prima volta quella tante volte fu varcata dal cardinale Martini negli anni del suo episcopato. E così, avendo visto, è ora possibile rileggere con una consapevolezza accresciuta le parole e i pensieri di Carlo Maria Martini che, precorrendo i tempi con lungimiranza profetica, anticipava riflessioni che oggi incominciano a trovare accoglienza – benché ancora timida e incerta – nel dibattito pubblico sul carcere, sul senso della pena, sulle esigenze di sicurezza della società.

Ciò che si scopre visitando il carcere è la consapevolezza che dietro le mura che recludono vive un mondo paradossale, un mondo sottosopra, per riprendere le espressioni di Jean Vanier; dove, per fermare la violenza, si deve compiere un atto di forza; dove, per tutelare i diritti, si debbono limitare i diritti; dove, per assicurare la libertà, si deve restringere la libertà; dove, per proteggere i deboli e gli indifesi, si devono rendere deboli e indifesi gli aggressori e i violenti.

Il carcere è una realtà drammatica che costringe a fare verità [/ CAP3- 1] è lo specchio rovesciato di una società, lo spazio dove emergono tutte le contraddizioni e le sofferenze di una società malata. In seguito al primo incontro della Corte a San Vittore, è nato un rapporto con tante persone che abitano e animano quell’istituzione. Un gruppo di detenuti ha dato vita a un’iniziativa che è stata chiamata Costituzione viva: in questo ambito, dete nuti provenienti da ogni dove si trovano a riflettere con regolarità sui valori fondativi della nostra convivenza civile, guidati da alcuni docenti. (...). Il dramma del carcere non tollera formalità e finzioni, non sopporta discorsi di circostanza o richiami superficiali a buoni sentimenti. Visitare un carcere è una esperienza esigente: chiede una partecipazione integrale, di tutta la persona, con la sua professionalità e la sua umanità. Il carcere è un luogo dove accade che a ogni visita le domande che si destano sono assai più numerose e complesse delle risposte che si possono offrire. Significativo è che nel docufilm che racconta il viaggio in Italia della Corte costituzionale uno dei giudici, a un certo punto della sua visita, afferma: «Sento la drammaticità delle vostre domande e l’inevitabile inadeguatezza delle mie risposte».

È dal senso di inadeguatezza rispetto ai problemi visti e dal lasciarsi inquietare dall’impatto con un frammento di realtà sconosciuta, contraddittoria e spiazzante che nascono nuovi interrogativi e di lì, for se, nuove idee: «Dopo gli incontri con i detenuti o in occasione degli scambi epistolari con loro, emerge ogni volta la domanda: è umano ciò che stanno vivendo? È efficace per un’adeguata tutela della giustizia? Serve davvero alla riabilitazione e al recupero dei detenuti? Cosa ci guadagna e cosa ci perde la società da un sistema del genere?» (MARTINI, 2003, pp. 10 e 80). La genesi dei “pensieri alti” di Martini – per attingere ancora una volta ad alcune felici espressioni di Adolfo Ceretti – si radica suo pensiero. Perciò, tra i moltissimi insegnamenti innovativi del cardinale, che hanno gene rato molti cambiamenti in Italia e altrove e che molto ancora potrebbero generare di fronte alla bruciante “domanda di giustizia” (MARTINI- ZAGREBELSKY, 2003) del nostro tempo, vorrei anzitutto insistere sul metodo che traspare dagli scritti che abbiamo la fortuna di poter leggere e meditare.

I contributi di Carlo Maria Martini in materia di giustizia penale, oggi meritevolmente raccolti nel volume Non è giustizia (MARTINI, 2003), sono ricchi e numerosi e si contraddistinguono per la complessità della sua riflessione: mai esclusivamente giuridica, anche se mai priva di precisi riferimenti all’ordinamento vigente; mai meramente pragmatica, anche se contraddistinta da una conoscenza di prima mano di tante situazioni personali e istituzionali; mai esclusivamente teologica, anche se profondamente intrisa e pervasa dalla “Parola”, come Martini ama va ripetere. In ogni caso, dal punto di vista metodologico, il suo apporto al problema della giustizia non si esaurisce mai in una dimensione puramente intellettuale o speculativa. Del resto, il problema non può esse re affrontato in chiave teorico- speculativa: Martini lo afferma chiaramente nel suo dialogo con Gustavo Zagrebelsky, nell’edizione conclusiva della Cattedra dei non credenti del 29 maggio 2002, pubblicata in un prezioso volumetto dal titolo La domanda di giustizia.

Invero è proprio Gustavo Zagrebelsky ad aprire le sue riflessioni con la constatazione che “giustizia” è un concetto inafferrabile, ineffabile, inattingibile sul piano concettuale (MARTINI ZAGREBELSKY, 2003, p. 4), anche se continuano a sovrabbondare gli studi che si testimonianza del bruciante bisogno e della “fame e sete di giustizia” che attraversano tutte le vite umane, personali e collettive (MARTINI ZAGREBELSKY, 2003, p. 12). Ogni tentativo di accostarsi al tema sul piano meramente speculativo è infecondo e destinato a fallire, perché la giustizia non è tanto un’idea che si colloca fuori di noi, ma “un’esigenza che postula un’esperienza personale: l’esperienza, per l’appunto, della giustizia o, meglio, dell’aspirazione alla giustizia che nasce dall’esperienza dell’ingiustizia e dal dolore che ne deriva” (MARTINI- ZAGREBELSKY, 2003, p. 16). Questa osservazione metodologica è la prima a essere ripresa e rilanciata dal cardinal Martini nella sua replica in quella medesima occasione (MARTINI- ZAGREBELSKY, 2003, p. 52), osservando che il senso della giustizia nasce paradossalmente da un’ingiustizia subita da noi o da chi ci è caro e che consideriamo parte di noi. Ed è lì, nell’ingiustizia subita, che mette le sue radici la regola aurea, di matrice biblica (Mt 7,12), del non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te, (...) Il primo punto fermo del pensiero di Martini porta innanzitutto in primo piano una visione realistica della persona umana, una visione capace di guardare senza infingimenti al male che nasce dentro il cuore dell’uomo (MARTINI, 2003, p. 128), senza mai perdere la fiducia e la speranza nella possibilità di un cambiamento. Martini non smette di ribadire che l’uomo, ogni uomo, è peccatore e che “l’istinto del cuore umano è incline al male fin dall’adolescenza” (Gen 8,21); ma con altrettanta insistenza non smette neppure di ripetere che ogni persona è anche sempre recuperabile. Per questo, egli afferma, “Dio giudica il colpevole ma non lo fissa nella colpa identificandolo in essa” (MARTINI, 2003, p. 45). Dalla sapienza biblica, oltre che dalla sua conoscenza diretta e personale di tanti detenuti, egli trae la convinzione che “l’uomo vale, che l’uomo è educabile, che l’uomo può essere salvato”. E anche quando fosse colpevole, l’uomo «non è bestia da domare, bersaglio da colpire, delinquente da condannare, nemico da sconfiggere, mostro da abbattere, parassita da uccidere» ( MARTINI, 2003, p. 64).

È sempre da stimare, da comprendere, da valorizzare, da responsabilizzare, perché l’uomo è sempre in divenire e non esiste nulla di irreversibile quando si parla di persona umana. È l’ammonimento rivolto, in forma poetica, da padre David Maria Turoldo nella poesia Salmodia contro la pena di morte, citata Non è giustizia (MARTINI, 2003, p. XVIII), come anche dal direttore della Casa di reclusione di Milano- Opera, Silvio Di Gregorio, nella sua Introduzione al catalogo della mostra fotografica di Margherita Lazzati Fotografie in carcere. Manifestazioni della libertà religiosa (LAZZATI, 2019, p. 5): Nessuno uccida la speranza neppure del più feroce assassino perché ogni uomo è una infinita possibilità. Da questo sguardo colmo di fiducia sulle potenzialità di recupero, sempre presenti, anche se spesso latenti, in ogni perso na quand’anche si fosse macchiata dei più ripugnanti delitti, consegue una concezione della pena radicata nella convinzione che chi sbaglia può sempre correggersi; sicché la pena deve guardare sempre al futuro, è chiamata a svolgere una funzione pedagogica ed educativa ed è volta a sostenere – con il tempo e con l’aiuto di presenze costruttive – un reale cambiamento della persona (ad esempio, MARTINI, 2003, pp. 32- 33 e 50- 51).