«È un incubo che ho vissuto ad occhi aperti. Altri forse hanno dormito, quel sonno della ragione che produce mostri». Stefano Binda ha attraversato l’inferno. E ne è uscito, cinque anni dopo un arresto che più ingiusto non si può. Dal 2016 a mercoledì scorso, mezza Italia è stata convinta che fosse lui l’assassino di Lidia Macchi, la giovane studentessa impegnata con Comunione e Liberazione uccisa con 29 coltellate nel gennaio 1987 e ritrovata morta in un bosco a Cittiglio, nel varesotto, un delitto rimasto senza colpevole.

In primo grado Binda - anche lui di Cl - era stato condannato all'ergastolo dalla Corte di assise di Varese e poi prosciolto in appello dalla Corte di Assise di appello di Milano il 24 luglio 2019, dopo tre anni e mezzo di custodia in carcere. Ora la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso del Pg di Milano e dei familiari di Lidia. Il suo nome era stato tirato in ballo con un colpo di scena degno di un crime movie: una lettera anonima contenente una poesia - “In morte di un’amica” - con dettagli che solo l’assassino poteva conoscere e recapitata alla famiglia il giorno del funerale della ragazza. Poesia che, secondo la ricostruzione dell'accusa, fu scritta proprio da Binda. Ma l’assassino non era lui. «Esperienze come questa - racconta Binda al Dubbio - lasciano macerie».

Si aspettava che finisse in questo modo?

Confidavo molto in questa decisione. Poi il fatto che lo stesso procuratore generale della Cassazione - e quindi non un avvocato dell’accusa, come molti magistrati intendono il loro ruolo, ma un pubblico ministero - abbia chiesto lui stesso l’assoluzione, francamente, ha incrementato le mie speranze: non c’era più un’accusa, in senso sostanziale.

Crede che questo voglia dire che il sistema giustizia, al di là delle sue storture, funziona?

Io ho attraversato gli estremi del codice, dalla pena massima all’assoluzione con la formula piena. Sono stato sfortunato nel primo grado o sono stato fortunato oggi? Credo che bisogna interrogarsi su quanto il sistema sia affidato alle scelte dei singoli, di quali garanzie dia. Francamente, come cittadino, non mi sembra responsabile dire che il sistema funziona sulla base della logica “tutto è bene quel che finisce bene”. È una sciocchezza. Ho passato tre anni e mezzo in carcere, il che vuole dire essere stato messo in pericolo. Il sistema giustizia non può non farsi carico di queste cose. È importante e delicatissimo. Ma a questo livello il dibattito pubblico è insufficiente e l’impostazione culturale non è all’altezza.

La famiglia della vittima ha affermato che non c’erano elementi per una sua condanna. Cosa ne pensa?

È importante che questa possa essere l’occasione di far tornare, anche nei miei riguardi, quella famiglia come la famiglia Macchi e non come la parte civile, cioè la privata accusa. Mi compiaccio che dica di comprendere l’assoluzione piena. D’altronde in primo grado è stato montato un processo indiziario contro di me, ne è risultato un processo di prove positive a mio favore eppure mi è stato dato l’ergastolo.

L’unico elemento era solo quella famosa lettera anonima.

C’era una consulenza di parte che me l’attribuiva e la mia consulente che lo negava decisamente. A fronte di ciò, la mia consulente è stata querelata per diffamazione e addirittura la procura generale ha chiesto che venisse depennata dall’albo dei consulenti, alla quale peraltro l’esperta della procura non è mai stata iscritta. Fortunatamente il consiglio dell’ordine dei consulenti tecnici ha manifestato la massima fiducia in lei.

Qual era il suo alibi?

Mi trovavo in vacanza a Pragelato, dall’ 1 al 6 gennaio. La stessa Patrizia Bianchi ( la superteste che ha affermato di aver riconosciuto la grafia di Binda, ndr) mi ha sentito fino al 31 per farmi gli auguri e poi il 7. Nessuno mi ha visto da nessun'altra parte, men che meno a Cittiglio, e tre testimoni ricordavano di avermi visto a Pragelato. Ci sono prove documentali, ovvero una mia agenda che riportava i nomi delle quattro persone che erano in stanza con me e le indagini hanno portato a evidenziare che in quell’albergo c’era un unico piano con una stanza da cinque persone. Quindi io avrei dovuto inventarmi il numero di una stanza che era l’unica per cinque persone, scrivere il nome di quattro persone che davvero c’erano e che si sono ricordate di essere in stanza insieme, toglierne una che non si è mai fatta avanti e sostiturmi a lei. Un’assurdità. E sto citando i verbali.

Perché è stato arrestato?

Mentre la lettera è stata mandata alla grafologa, la busta è stata spedita a Parma, ai Ris. La grafologa dichiarò di trovare una corrispondenza, mentre i Ris comunicarono di aver trovato un dna valido sulla busta. Non attesero gli esiti: certissimi che fossi io, mi fecero arrestare. Poco dopo i Ris dissero che non c’era corrispondenza con il mio dna. Ma ormai il treno era partito. E chi lo ferma, a quel punto?

C’era del dna anche sul corpo.

Riesumarono la salma riuscendo a trovare quattro formazioni pilifere sul pube, tutte e quattro della stessa persona, ma non mie. E ho comunque preso l’ergastolo. In Corte d’Appello è stata la scienza a farmi assolvere.

In primo grado come era stata giustificata la sua condanna?

Le prove del dna sono state ritenute neutre. Il dna è stato comparato con quello dell’addetto delle pompe funebri di allora, per verificare un’eventuale contaminazione, ma non con quello degli altri che erano stati sospettati prima di me. Alcune donne avevano denunciato di essere state molestate nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio, ne è stato fatto un identikit che corrisponde perfettamente ad uno dei sospettati, scagionato perché non poteva aver scritto l’anonimo, in quanto “non ne aveva la cultura”. La sentenza d’appello parla di deserto probatorio. Dice chiaramente che, consapevoli di non avere in mano niente, in violazione di legge, hanno approvato l’idea che l’autore del delitto dovesse avere un certo profilo per cucirmelo addosso.

Come sono stati l’arresto e il periodo che ha vissuto in carcere?

È stata una cosa sinceramente devastante. Si dice sempre: se non hai fatto niente quando suonano al campanello stai sicuro che non è la polizia. E invece era proprio la polizia. Non capivo. I primi sette giorni e sette notti sono stati i più duri della mia vita, ho fatto uno sforzo enorme per rimanere lucido e ciò mi ha aiutato molto. Sono stato l’unico ad andare in galera dopo 30 anni dal fatto, da incensurato, sotto gli occhi di tutta Italia. Il pericolo di fuga è stato documentato perché conosco un prete che è nunzio apostolico in Burkina Faso: una roba assurda. Il pericolo di inquinamento delle prove, invece, dopo 30 anni dal fatto e 19 ore di perquisizione che avevano prodotto nulla, era motivato con il rischio di subornazione dei testimoni. Su questo chiesero l’incidente probatorio testimoniale, per bloccare le testimonianze. Ma risultò totalmente a mio favore. Per spiegare il livello delle indagini, si disse che a rendere possibile l’ipotesi che io avessi un coltello era il fatto di dover tagliare l’eroina! O anche che io mi trovassi dove è stata uccisa perché stavo andando al Sert. Peccato che il Sert sia stato istituito per legge nel 1990 e a Cittiglio il primo risale al 1995. Questi non sono spunti investigativi, questi sono motivi di un ergastolo.

Chiederà un risarcimento?

Quello che è finito è finito, ma lascia una devastazione economica totale e parlo delle cose materiali, che sono le ultime. Ci sono ben altre ferite, altri pesi. Parlando del parzialmente rimediabile, questa assoluzione con formula piena rende ufficialmente la mia un’ingiusta detenzione. Dovrò fare causa allo Stato, che resisterà.

Cosa farà adesso?

Mi piacerebbe molto se la mia esperienza servisse a qualcosa. Non ho perso i contatti con il carcere, un mondo davvero dimenticato, di cui a nessuno importa. La giustizia va davvero ripensata, ma dall’inizio, dal concetto di polizia giudiziaria. Una persona può disporre, senza limiti di budget, della vita degli altri. Io sono sempre stato libero, ma adesso, a fronte della assoluzione, voglio riconquistare appieno la mia libertà, che non dipendeva certo dallo Stato, così come la mia innocenza. Vorrei guadagnarmi una vita davvero libera, a partire dal guadagnarsi da vivere, nel senso più concreto del termine. Ho 53 anni, con un titolo di studio in filosofia preso due vite fa: non è facile. Voglio aiutare quelli che hanno a che fare con la giustizia, ma dalla parte sbagliata.