Il “caso Maresca” ha nuovamente riaperto il dibattito sul rapporto fra politica e magistratura. La storia è nota. Catello Maresca, attuale sostituto procuratore generale a Napoli dopo aver trascorso molti anni alla Dda del capoluogo campano, è il candidato in pectore del centro destra per Palazzo San Giacomo. Le elezioni per il nuovo sindaco di Napoli, emergenza sanitaria permettendo, sono in programma entro i prossimi mesi. La possibile candidatura di Maresca è stata molto criticata in queste settimane dai suoi stessi colleghi. Per Marcello De Chiara, presidente dell’Anm napoletana, si rischia di “appannare” l’imparzialità e l’indipendenza della magistratura. De Chiara ha anche sottolineato la necessità di una legge che impedisca la canditura dei magistrati nella sede di servizio. Per il Csm, interpellato sul punto, non c’è invece alcun problema. Oggi, infatti, non esiste una norma che vieti ai magistrati di candidarsi alle elezioni amministrative nei territori dove operano. A dire il vero un testo che regolamentasse la “discesa in politica” delle toghe era stato approvato all’unanimità dall’aula di Palazzo Madama a marzo del 2014, relatori l’allora senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin, già consigliere del Csm, e Felice Casson, magistrato ed esponente del Pd.

Trasmesso poi alla Camera era rimasto fermo fino alla primavera del 2017, quando venne fatto oggetto di modifiche che determinarono il suo ritorno in Senato per l’approvazione definitiva. La fine della legislatura, qualche mese più tardi, impedì il voto finale. Il disegno di legge su toghe e politica, comunque, aveva una lunghissima storia alle spalle. Presentato la prima volta nel 2001, governo Berlusconi, venne approvato alla Camera per poi arenarsi in Senato. Venne quindi ripresentato, senza successo, sia nel 2005 che nel 2011. Nell’ultimo decennio, esaurita l’euforia per i magistrati in politica, si erano create tutte le condizioni affinché il Parlamento regolamentasse la materia. Il Csm aveva votato all’unanimità un parere per inasprire il rientro delle toghe dopo l’esperienza politica, prevedendo il loro collocamento in altri ruoli della pubblica amministrazione. Dello stesso avviso, inizialmente, anche l’Associazione nazionale magistrati. Il Greco, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa, aveva “invitato” l’Italia ad introdurre leggi che ponessero limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, mettendo fine alla possibilità per le toghe di mantenere il loro incarico in caso di elezione o nomina negli enti locali. Ed anche l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva invitato il Parlamento ad intervenire.

Nel testo iniziale un magistrato poteva candidarsi nel rispetto di una serie di restrizioni legate al luogo in cui aveva esercitato le funzioni. Terminato il mandato era previsto il suo transito ai ruoli amministrativi presso il Ministero della Giustizia o al collegio giudicante, con clausola di astensione di fronte a casi riguardanti esponenti politici. Nel testo modificato, gli eletti alla carica di presidente della Regione, consigliere regionale, consigliere comunale o circoscrizionale, una volta cessati dal mandato, rientravano in magistratura non potendo, per i successivi tre anni, prestare servizio in un distretto di Corte di appello in cui è compresa la circoscrizione elettorale nella quale erano stati eletti. Inoltre non potevano esercitare funzioni inquirenti e, una volta ricollocati in ruolo, ricoprire incarichi direttivi o semidirettivi sempre per tre anni. Laconico il commento di Pierantonio Zanettin: «Invano anche all'inizio di questa legislatura abbiamo chiesto la sollecita calendarizzazione del testo in Commissione giustizia». La regolamentazione delle candidature dei magistrati, invece, è confluita nel disegno di legge delega sulle riforma dell’Ordinamento giudiziario e del Csm in discussione alla Camera. «Un errore – aggiunge Zanettin – in quanto esisteva un testo già pronto che poteva essere approvato subito». La crisi di governo ha ora stoppato nuovamente tutto. E chissà se il nuovo esecutivo avrà la forza di approvare una riforma attesa da venti anni.