Sono circa le 7 del mattino quando un gruppo di agenti del Commissariato Tuscolano si introduce all’interno della Casa delle Donne “Lucha y Siesta” di Roma per identificare quattro persone. Si tratta di quattro donne, ospiti della struttura per un fine ben preciso: sottrarle alla violenza.

I fatti risalgono a martedì scorso: il figlio di una delle ospiti esce per andare a scuola, lasciando il cancello aperto. Quindi gli agenti accedono alla struttura, arrivano al primo piano e bussano alla porta delle stanze per procedere all’identificazione: senza alcun preavviso, come vorrebbe la prassi, e senza attendere l’arrivo delle avvocate e delle operatrici. Perché?

Per spiegare l’accaduto bisogna fare un passo indietro. Nel 2019 la procura di Roma apre un fascicolo contro ignoti per occupazione abusiva dell’immobile. «Probabilmente in seguito all’ultima denuncia dell’Atac e prima che si aprisse la procedura per le aste», spiega l’avvocata Federica Brancaccio che segue legalmente le donne identificate. Da allora le cose sono cambiate. «Quando l’Atac ha deciso di sfrattarle e vendere l’immobile per sanare i propri debiti, la Regione Lazio ha deciso di mettere a disposizione i fondi per acquistare l’immobile e garantire la continuità dell’esperienza», precisa Antonella Veltri, presidente del rete antiviolenza D. i. Re. Che ora si rivolge direttamente alle istituzioni perché accelerino «le procedure per la compravendita dell’immobile, riconoscendo l’enorme lavoro fatto sin qui e facendo in modo che episodi come quello a cui abbiamo assistito non debbano mai più ripetersi». «Da oltre 30 anni - precisa Veltri l’attivismo femminista ha dato vita a centri antiviolenza e case rifugio autogestite che hanno colmato una lacuna enorme dell’Italia – rilevata anche dalla Special Rapporteur sulla violenza delle Nazioni Unite e dal GREVIO, il Gruppo di esperte del Consiglio d’Europa che monitora l’applicazione della Convenzione di Istanbul – ovvero la gravissima carenza di posti per supportare le donne che hanno subito violenza e i/ le loro figli/ e». Come nel caso di Lucha y Siesta che - accogliendo numerose donne su segnalazione di altri centri riconosciuti sul territorio nazionale – rappresenta da oltre dieci un punto di riferimento essenziale nel contrasto alla violenza di genere, oltre che un «un patrimonio per l’intera città di Roma», per citare le parole di Giovanna Pugliese, assessore alle Pari Opportunità e Turismo della Regione Lazio.

Ma torniamo ai fatti. E alle polemiche che l’accaduto ha suscitato in seguito alla denuncia delle stesse operatrici di Lucha y Siesta: «Le donne ospitate nella Casa, come noto, stanno vivendo percorsi di fuoriuscita dalla violenza - spiegano le attiviste su Facebook - sono seguite dai servizi sociali, sono inviate da strutture che non hanno lo spazio per accogliere, hanno fatto un percorso di ascolto, di screening sanitario regionale, sono in molti casi seguite in collaborazione con altre associazioni che si occupano di contrasto alla violenza di genere e che trovano in Lucha una risorsa preziosa. Le loro identità sono ben note; perché, quindi, identificarle e agire nei loro confronti l’ennesima violenza? Quale sarebbe il senso di una simile operazione?». E ancora: «Lucha y Siesta - scrivono le operatrici - è bene prezioso per la città, a cui ogni giorno le istituzioni stesse si rivolgono per dare risposte a bisogni che altrimenti non saprebbero affrontare. È così da 12 anni. Qui ogni giorno si lotta per costruire accoglienza, orientamento e supporto. Non tollereremo dunque il modo scomposto e abusante con cu l’identificazione è stata compiuta, non tollereremo l'arroganza con cui si asfaltano percorsi di donne che lottano per uscire dalla violenza, non tollereremo atteggiamenti inopportuni di chi dovrebbe essere formato contro la violenza di genere, ma evidentemente in modo insoddisfacente e inadeguato».

«Più che un’identificazione sembrava una perquisizione», racconta l’avvocata Brancaccio, che precisa: le identificazioni, richieste dalla magistratura, «sono assolutamente lecite». «Ma le modalità ci sembrano quantomeno atipiche», aggiunge. Di norma, infatti, ai soggetti indagati è rilasciato un invito a presentarsi in commissariato per l’identificazione e la nomina del difensore: «Un’attenzione che, aldilà della procedura, era dovuta», aggiunge Brancaccio. Proprio in considerazione della particolare condizione di fragilità in cui si trovano le ospiti della struttura, e con una premessa necessaria: nell’avviso che informava le donne del procedimento a loro carico non era specificato il reato contestato. «Non è mai facile gestire i colloqui con donne che affrontano certi percorsi, e vederle spaesate, intimorite, per un’identificazione che poteva - e doveva – essere risolta diversamente, risulta incomprensibile a livello umano», conclude la legale.